Archive for marzo, 2016

La birra delle Fiandre piemontesi.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Marentino, il paesaggio le colline torinesi. Le coordinate geografiche sono 45°3’ Nord e 7°52’ Est.

Il nome è dolce. Marentino: piccolo mare di rilievi verdeggianti, dove tra ciuffi di bosco, greti di fiume e campi coltivati, spuntano tetti di case, pietre di castelli, insegne di osterie.

Ci troviamo a trecento metri sul livello del mare, una ventina di chilometri da Torino. Sotto di noi c’è la Pianura Padana; sopra, le cime dell’arco alpino. Una vista che immagino suggestiva, oggi un po’annebbiata dalla foschia.

Dovrebbe alzarsi un filo d’aria per pulire il cielo, ma quando il nostro piccolo drone si alza in volo, le montagne restano nascoste dietro un cielo bianco verticale, come una tenda. Giornate piemontesi, soleggiate eppure in ombra. Questa è una terra generosa e riservata, che va presa al momento, cogliendo il buono di tutto.

Raggiungiamo il punto più alto del paese: la Chiesa dell’Assunta, costruita sui resti dell’antico castello feudale dei Beccaria. Di quell’impianto difensivo medievale rimane la posizione di dominio e il possente campanile che un tempo era la torre del castello. Tra un decollo e un atterraggio del drone, che in andata scruta il paesaggio e al ritorno insegue Davide con la sedia in spalla, leggo un cartello turistico posto sull’edificio sacro. Scopro che nella chiesa è custodita una grande pala d’altare, copia dell’Assunta di Guido Reni. Mi riprometto di tornare. A Marentino non ci sono le montagne da vedere.

Lasciamo la cima del colle e scendiamo in paese. Qui a Marentino, forse in onore del silenzio piemontese, hanno deciso di far parlare i muri. Se avete un po’ di tempo libero, fermatevi a guardare le facciate delle case. Ci sono tanti rebus da risolvere: decori intriganti, di un’allegria un po’ dimessa, non troppo giovane. Colori tenui e figure d’altri tempi, con scorci mitologici incastrati nelle abitazioni di città anni Sessanta, dettagli di libri e locandine di cinema, chiese e frutti dei campi. Un mondo di parole piane e sdrucciole, sillabe che s’incastrano tra loro e con l’aiuto di qualche lettera formano frasi inutili, ma di senso compiuto.

«Brocca pieNA di viNO!» esclamo avvicinandomi a Davide.

Lui sorride. Sta cercando di risolvere un altro rebus con le stelle al posto delle lettere.

Questo è difficile. Però sullo sfondo del dipinto ci sono le montagne innevate. Ecco l’arco alpino che si nascondeva dietro il cielo! Lo faccio notare a Massimo, il nostro regista, che s’illumina e inquadra il dettaglio. Non sopporta che io scriva qualcosa nei testi che poi lui non riesce a riprendere nella realtà.

Noi però non siamo venuti per risolvere rebus, ma per conoscere Valter, uno dei più qualificati e interessanti mastri birrai italiani. Un artigiano tanto piemontese da sembrare quasi belga.

In Italia sono nati negli ultimi anni tantissimi microbirrifici e nel paese del vino si è diffusa la cultura della birra. Però non esiste un altro birraio come Valter.

Ha cominciato a produrre per passione, poi è nata una professione. Voleva recuperare l’antica tradizione delle Fiandre, dove le birre si producono in famiglia, seguendo ricette che si tramandano da generazioni. Valter ha incontrato quel mondo in via d’estinzione e lo ha messo in contatto con la nostra cultura contadina del vino. Le sue birre nascono dal legno, dalla frutta, dalle spezie, rielaborando e rinnovando antiche ricette.

Sono tutte birre sour, cioè acide: proprio come il vino. Valter ha cominciato subito a lavorare con fermentazioni spontanee, inoculo di lieviti selvatici, passaggi in legno, utilizzo di frutta e spezie locali, uva e mosti; poi, dopo anni di sperimentazioni, ha cominciato a vincere premi e a ricevere ordini da tutto il mondo.

È interessante notare come noi italiani – così abituati all’acidità del vino – associamo il gusto della birra all’amaro del luppolo. E infatti, le birre acide di Valter sono apprezzate soprattutto all’estero. Il suo Piemonte sour è sbarcato negli Stati Uniti, in Scandinavia, Gran Bretagna, Belgio, Danimarca, Scozia, Irlanda, addirittura in Australia.

In Italia, le birre di Valter sono ancora un piccolo rebus. Per apprezzarle, bisogna conoscerle e capirle.

«Certo che hai fatto una scelta radicale!» gli dico in una pausa di lavorazione.

Lui mi guarda con un sorriso timido.

«Voglio dire, solo birre speciali, addirittura specialissime, con prodotti di stagione…»

Valter mi versa un goccio di birra al cardo e sorride ancora. Prende fiato, beve.
«È vero» dice infine «Mi sono imposto fin dall’inizio di vivere delle produzioni di nicchia».

«Potresti fare anche tu una birra tradizionale, da servire ghiacciata con la pizza, piena di buoni luppoli tedeschi».

«Potrei, ma non avrebbe senso. Non per me».

Ancora una volta mi lascio affascinare dalla mente dell’artigiano, che percorre sempre la strada che ha in mente. Artigiano e artista: un confine labile, indefinibile e sfumato. Si lavora per vivere, ma è il lavoro che dà la vita. E quando si lavora per gli altri, e sempre per sé stessi che ci si mette all’opera.

Artigiani e artisti: beni culturali viventi, come li chiama Davide nei suoi corsi all’università.

Proprio Davide si avvicina a noi e sorseggia una birra scura, fatta di spezie e caffè. Insieme a Valter scorriamo l’elenco delle ricette che negli anni ha faticosamente perfezionato. Accanto ai due tini di rovere delle fermentazioni naturali, ci sono circa duecento ettolitri di birra che affinano nel legno per mesi e mesi, anche più di un anno.

La produzione di Valter è scandita dai tempi della natura e dalle maturazioni delle materie prime che sono sempre tipicità piemontesi: uve Barbera e Nebbiolo, susine damaschine, albicocche, cardo, timo serpillo, e poi caffè, china calissaia, rabarbaro, genziana, zafferano…

Il luppolo nobile è opportunamente invecchiato, in modo che perda le proprietà amaricanti e possa essere utilizzato solo come conservante naturale.

«La birra si fa con il malto» ribadisce Valter «non con il luppolo».

Tutte queste birre sono piccole opere d’arte, realizzate a mano da Valter. E anche le etichette sono disegnate da lui. Il mastro birraio apre la cartella dei lavori, prende alcuni fogli bianchi e una scatola di matite colorate. Sotto l’occhio ravvicinato dell’obiettivo accenna il delineo di alcune delle sue figure tipiche. Con un segno molto personale, ironico e lieve, ripropone le raffigurazioni di affreschi medievali, con i prodotti della terra e i personaggi della cultura del tempo.

Contadini, monaci, dame, cavalieri… Ogni birra un’immagine, ogni sorso una storia.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi…

Venite a Marentino, sulle colline torinesi; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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La patata bianca di Oreno.

Oggi siamo in Lombardia. Il paese è Oreno di Vimercate, il paesaggio la Brianza.
Le coordinate geografiche sono 45°37’ Nord e 9°21’ Est.

Quando Marco, il nostro direttore di produzione, mi telefona per sapere se sono già partito da Genova, sto svoltando per uscire dalla tangenziale a nord di Milano. Il paesaggio è piatto e uniforme, il cielo grigio. Aspettavamo il sole, invece sta per piovere. Il navigatore dice che sono alle porte di Vimercate, a un paio di chilometri da Oreno. Comincio a temere il peggio: cerco con lo sguardo il paesaggio che ho descritto nella sceneggiatura, ma vedo solo macchine in coda e strade e capannoni. Sempre al telefono, Marco mi spiega dove andare. Non capisco e procedo alla cieca per qualche centinaio di metri, poi di colpo entro in paese: una curva, una leggera salita, l’asfalto svanisce e il manto stradale si ricopre di un bel selciato antico. La via diventa strettissima, quasi pedonale. Colgo al volo una casa rurale ottocentesca sulla destra, un’altra più antica sulla sinistra; costeggio in rapidissima successione l’ingresso quasi nascosto della rinascimentale Villa Borromeo, poi un’altra curva e sono davanti alla monumentale Villa Gallarati ScottiIn una manciata di secondi, tutto è diventato silenzioso ed elegante; anche la gente si muove con passo felpato, come per non svegliare le pietre e la natura.

Oreno si rivela un paese nobile e inatteso. Anche il cimitero è impreziosito da una coppia di cappelle gentilizie. Quella dei Borromeo è particolarmente interessante, costruita con i materiali ricavati dalla demolizione del Lazzaretto di Milano.

Raggiungo i protagonisti della puntata: Paolo, Francesco e sua moglie Lucia. Hanno una bella azienda agricola proprio nel cuore del paese, tra le ville e il Convento dei Frati Minori Cappuccini. Coltivano i prodotti dell’orto, ma soprattutto le patate bianche di Oreno, con cui realizzano strepitosi gnocchi artigianali.

Ci accompagnano nel convento, il cui impianto originario risale addirittura al Duecento. Poi entriamo nel parco di Villa Borromeo. I custodi e i proprietari sono gentilissimi e ci guidano alla scoperta della proprietà. Il nostro operatore prepara il drone e lancia l’oggetto volante sui tronchi secolari del parco. Davide apre la porta di un magazzino e lo attraversa con la sedia in spalla; il drone dietro di lui accarezza le pareti in pietra e il soffitto basso in legno.

Ci avviciniamo alla casina di caccia. All’esterno noto un’interessante scultura inserita in una nicchia, con la Madonna che tiene sulle ginocchia un piccolo Gesù così umano e reale da strappare un sorriso. È tutto storto, con le gambe alzate, come fanno i neonati quando gli si cambia il pannolino. Una raffigurazione molto bella e credo insolita per la cultura del Cinquecento.

All’interno ci sono alcuni elementi d’arredo originali e un grande affresco che decora la stanza del piano superiore, con scene di caccia, animali e piante, volatili, levrieri, dame e cacciatori. Tutto molto bello: da visitare.

Tutt’intorno boschi e campagne che il nostro drone esplora dall’alto, con picchiate improvvise da sessanta metri sulla testa di Davide. Nel frattempo smette di piovigginare e si apre uno squarcio di luce, che bagna le Alpi sullo sfondo e il Resegone. È il momento di lasciare il centro abitato e andare nei campi di patate. Prima però Davide deve rendere omaggio alla statua dell’abate Müller, il religioso e botanico che per primo ha introdotto la coltivazione della patata bianca qui ad Oreno alla fine dell’Ottocento.

Due secoli fa, questi terreni erano coperti di vigneti e gelsi. Poi la filossera e l’invenzione delle fibre tessili hanno modificato l’economia e il paesaggio rurale, favorendo la coltivazione della patata bianca. Fino agli anni trenta del Novecento, queste terre erano tutte coltivate a patate e nel periodo della fioritura i campi sembravano prati ricoperti di minuscoli fiori bianchi e gialli. Poi le guerre, la modernità, la fuga dalle campagne e l’abbandono delle proprietà. Fa piacere vedere che oggi la biancona sia ancora coltivata – con eccellenti risultati – da giovani come Francesco, Lucia e Paolo, che hanno riscoperto le tecniche di produzione artigianali e hanno puntato sulla trasformazione del prodotto fresco, creando un alimento ad alto valore aggiunto.

«Il nonno di Paolo era chiamato “patàn”, l’uomo delle patate!» esclama Davide camminando con la sedia in spalla lungo i solchi che il trattore ha aperto di fresco.

Il terreno di Oreno è ricco di minerali e trattiene molto bene l’acqua, evitando dannosi ristagni. La pasta della patata di Oreno è naturalmente bianca, con un sapore ricco e intenso, la polpa molto soda e poco umida, ideale per gli gnocchi.

Per valorizzare la bianconaPaolo ha avviato la produzione artigianale proprio degli gnocchi di Oreno, secondo l’antica ricetta locale.

È tutto molto semplice e al tempo stesso difficile. La sfida era portare nei negozi di oggi gli gnocchi di casa di una volta. Per la dimostrazione, Paolo indossa la giacca da chef e seleziona le patate. Ne servono molte, oltre il 70% del peso totale, ben lessate, schiacciate, salate e impastate. In genere, negli gnocchi industriali, si trova poco più del trenta per cento di farina di patate estere liofilizzate. Una grande differenza, che si sente subito in bocca, già assaggiando il prodotto crudo, rubandolo dal canovaccio infarinato come i bambini impazienti che non vedono l’ora di sedersi al tavolo della festa.

Paolo taglia l’impasto e mette gli gnocchi ad asciugare. Nessuna aggiunta di additivi, né condensanti, né coloranti, né conservanti. Negli gnocchi di Oreno ci sono solo patate bianche locali e duecento anni di esperienza…

Per la gioia di Davide, appena pronti gli gnocchi, Paolo si mette ai fornelli. Gli basta una piastra elettrica montata sul ripiano di un furgone parcheggiato all’aperto. Lo stesso negozio ambulante che Francesco e Lucia utilizzano per andare nei mercati e proporre le patate bianche di Oreno fritte.

Paolo mette a bollire gli gnocchi, poi li scola e li fa saltare con il lardo e la pancetta. Una, due, tre giravolte della padella sotto l’occhio attento della telecamera che cattura al rallentatore il movimento del polso e il volo degli gnocchi.

Infine la presentazione, con un letto di crema di zafferano che accoglie gli gnocchi insieme a un tocco di panna. Il piatto è tutto per Davide:

«Anche questa è l’Italia della qualità!»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Oreno di Vimercate, in Brianza; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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Biodiversità sulla Via del Sale.

Oggi siamo in Lombardia. Il paese è Varzi, il paesaggio la Valle Staffora. Le coordinate geografiche sono 44°49’ Nord e 9°11’ Est.

È mattina presto, guido lentamente nella nebbia. A Tortona esco e imbocco la statale, lasciandomi portare dal navigatore che mi conduce a Rivanazzano. Tra il mercato e il palazzo comunale incontro Davide con il resto della troupe. Parcheggio, prendo gli stivali e monto svelto sulla macchina di Maurizio, il veterinario che ci farà da guida in questa puntata dedicata al recupero delle biodiversità bovine e alla tutela della razza Varzese.

Non mi sfiora neanche l’idea di continuare a guidare nella nebbia dello Staffora. Allaccio la cintura e mi rilasso, in attesa che il sole scaldi la terra e torni tra noi. Direzione Varzi, da qualche parte, là in mezzo.

Varzi è un’antica cittadina di origine romanica, con un centro storico medievale intatto.

Secoli di storia sono racchiusi nei vicoli del borgo, nelle architetture delle chiese e delle dimore feudali. Il paese sorge lungo il declivio della collina che sale dal fiume verso i primi rilievi, oggi imbiancati di neve.

Qui a Varzi giungeva la mitica Via del Sale, scambio continuo di merci e culture. All’imboccatura del ponte sullo Staffora c’è un cartello che indica il sentiero. Bisogna però immaginare una rete di strade di montagna che attraversava tutto il territorio al di qua e al di là dell’Appennino. Da un lato il mare, dall’altro la pianura. Un dedalo di sentieri che partivano dalla Liguria di Ponente e di Levante per poi collegarsi alla strada maestra che proveniva da Genova. I carri dei mercanti e gli asini dei contrabbandieri, che nascondevano il sale nelle botti sotto strati di acciughe, salivano le creuse, attraversavano la linea dei forti e procedevano in direzione Casella e Torriglia. La leggenda vuole che proprio su quelle pietre abbiano camminato le reliquie di sant’Agostino in fuga dai Saraceni. Poi Savignone, Bobbio e infine giù dai monti, verso la grande pianura.

L’antico mercato di Varzi è ancora vivo nella città, disposto su tre livelli coperti da soffitti con le travature in legno e le botteghe oggi utilizzate come cantine per affinare i salumi. Percorriamo questi camminamenti insieme a Davide e alla sua sedia, con il nostro regista e l’operatore che lo inseguono mentre lui si ferma di continuo per ammirare qualche dettaglio. Piccole iscrizioni scolpite nella pietra, edicole votive incassate negli angoli dei palazzi, dipinti a fresco che resistono al tempo, portali in legno e ferro.

Davvero Varzi merita una visita, specie nell’ora di merenda. Vino, formaggi e salumi qui hanno molto da raccontare.

Ma noi siamo venuti per parlare dell’importanza delle biodiversità bovine e della necessità di salvare la razza Varzese, la vacca autoctona fulva con il ciuffo in fronte che era già qui ai tempi di Annibale e che poi ha attraversato i secoli dando latte e carne a ogni fuoco (nell’antica accezione di nucleo famigliare) della valle. Quindi l’estinzione, degli allevatori e delle loro vacche, dovuta non solo al miraggio della città e all’abbandono delle campagne, ma anche alla scelta di animali apparentemente più produttivi e alla crescita di una zootecnia folle e malata.

A poco a poco – dopo lo scandalo della mucca pazza – è riemersa un’idea più antica e sana di allevamento. Tra mille difficoltà, è iniziato un percorso di valorizzazione dell’allevamento bovino, recuperando le caratteristiche specifiche di ogni razza. L’Italia è la terra dei vitelli (dal termine osco Viteliù, appunto terra dei vitelli) e dunque anche delle vacche. Solo che rischiamo di perderle per strada, uccise dall’avidità, dall’ignoranza e dall’inefficienza delle istituzioni. L’Aia – Associazione italiana degli allevatori – è l’organo operativo del Ministero dell’Agricoltura e gestisce la raccolta e la distribuzione del materiale seminale, indispensabile per la salvaguardia delle razze: Varzesi, Cabannine, Burline, Pontremolesi e tante altre. Ma la burocrazia degli uffici sembra non conoscere i tempi degli allevatori e le loro necessità.

Oggi ci occupiamo di Varzesi e raccontiamo due storie che riguardano questo territorio e questi animali, ma la terra dei vitelli è piena di vicende simili.

Il primo allevamento che visitiamo è quello di Lino, un appassionato che ci accoglie con un amico, vestito alla maniera degli antichi briganti, con il mantello di lana cotta e il cappello di feltro. Nel pascolo di fronte alla stalla hanno parcheggiato il carro e il giogo con i finimenti. Armeggiano con quegli oggetti lavorati nel legno e nel cuoio per unire la coppia di vacche e legarle al carro. Riprendiamo una scena che oggi non si vede più. Il veterinario ci chiede una copia del girato, per i suoi studenti. Poi entriamo in stalla; Lino accompagna Davide e la telecamera accanto a una delle sue Varzesi. Spiega che ha aspettato per mesi il materiale seminale, ma alla fine ha dovuto fecondare l’animale con il seme di un’altra razza, perché non poteva tenerla in asciutta forzata a vita.

Poi saliamo in montagna da Daniele, un giovane che ha deciso di costruire la sua fattoria sulla cresta di una roccia. Sembra l’Arca appollaiata sul vertice dell’Ararat dopo il diluvio. Vuole riportare le Varzesi sull’Appennino, dov’erano diffuse fino agli anni Sessanta. Oggi c’è solo lui.

Aveva un bel toro e bisognava prelevare il materiale seminale. L’appuntamento con i tecnici era stato fissato a febbraio del 2015, ma a ottobre non s’era ancora visto nessuno. Un toro ha tempi obbligati di macellazione, altrimenti la sua carne diventa immangiabile e senza valore. Si sono presentati dopo Natale, nel gennaio del 2016, ma il toro di Daniele ovviamente non c’era più. La sua linea genetica era stata persa per sempre. Sembra incredibile, ma è così.

Questi allevatori sono beni culturali viventi, ma la loro sopravvivenza dipende da quella dei loro animali. Mantenere la biodiversità di razze bovine autoctone non è solo una sfida, ma un obbligo morale. Allevatori come Lino e Daniele, che stanno coraggiosamente andando in questa direzione, devono essere accompagnati nelle loro scelte e avere la certezza del potenziale riproduttivo dei loro capi.

La qualità del nostro futuro, ambientale e nutrizionale, passa anche attraverso la costituzione di una rete diffusa di piccoli allevatori e agricoltori. Le tecnologie e le conoscenze per sostenerli non mancano. Occorre la volontà.

«Questa è l’Italia della qualità» esclama Davide al termine del servizio, assaggiando una fetta di toma di Varzese «ma perché sopravviva occorre anche la qualità delle istituzioni!»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Varzi e in Valle Staffora; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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La cipolla rossa della mitologia.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Tropea, il paesaggio la costa tirrenica di Capo Vaticano. Le coordinate geografiche sono 38°40’ Nord e 15°53’ Est.

Arriviamo in paese poco prima di cena e ci avventuriamo nel borgo alla ricerca del nostro albergo, spingendo le valige che saltellano nervose sul selciato. La serata è fredda e ventosa, noi siamo stanchi e l’albergo si nasconde tra le insegne spente e i negozi chiusi. Alla fine troviamo il moderno bed & breakfast, ricavato all’interno di un antico palazzo. Tutto molto bello, ma freddo. Non nel senso dell’arredamento, insieme di legni e vetri e tappeti, ma del riscaldamento, evidentemente spento nella stagione morta.

Fuori il vento rinforza e la temperatura scende ancora, mentre all’ingresso incontriamo Domenico, il protagonista della puntata. È un appassionato coltivatore della specialità del luogo: la cipolla di Tropea. Un agricoltore che ha saputo andare oltre l’agricoltura, puntando sulla trasformazione del prodotto fresco e sulle sue infinite declinazioni in vasetto.

Siamo ospiti in un bel ristorante sulle alture di Capo Vaticano, dove lo chef ha preparato un menu a base di cipolle rosse di Tropea Calabria IGP e delle specialità di Domenico. Per raggiungere il ristorante passiamo accanto ai suoi terreni.

Domenico mi racconta che la zona costiera tra il Capo e Amantea è l’area di coltivazione della cipolla.

«Allora non è proprio corretto dire cipolla di Tropea – domando. – Dovremmo chiamarla cipolla di Capo Vaticano?» Domenico sorride e mi spiega che da sempre la cipolla si coltiva quima a Tropea arrivava la ferrovia e da lì partivano i prodotti per il nord. Per questo è conosciuta come cipolla di Tropea. Poi il nome comune è diventato una denominazione ufficiale: cipolla rossa di Tropea Calabria IGP.

L’indomani mattina, dopo una notte fredda e ventosa, ritorniamo nelle strade di Tropea con la telecamera in spalla. Il paese deserto di ieri sera, questa mattina brulica di macchine che attraversano i vicoli del centro storico e di ragazzi che si recano a scuola. La troupetelevisiva mette curiosità; qualcuno di loro farà tardi.

L’inizio del servizio è di sapore mitologico. Davide si affaccia sul mare e sfidando il vento urla rivolto alla macchina da presa: «La rocca di Tropea è un balcone affacciato sulla Costa degli Dei. Secondo la leggenda, qui approdò Ercole e fondò la città. Ma tutta questa terra è forgiata nel mito…»

Saliamo in macchina e raggiungiamo Capo Vaticano. Facendo capolino tra le pale di un fico d’India e le foglie di un arbusto di macchia mediterranea, Davide prosegue il racconto spiegando che il nome di Capo Vaticano deriva dai vaticinii dell’oracolo, una profetessa che i naviganti interrogavano prima di affrontare i gorghi di Scilla e Cariddi.

Il territorio del Capo è stato abitato dai Greci e dai Romani, poi da Bizantini, Arabi, Normanni e tutti hanno lasciato tracce del loro passaggio che si ritrovano ancora oggi, mescolate nella cultura locale e in un dialetto talmente ricco di suoni che l’alfabeto italiano non riesce a trascrivere.

Dietro al mare si distendono le campagne e naturalmente le cipolle. Raggiungiamo il campo di Domenico dove lavora anche il padre. La stagione è appena cominciata e dalla terra spuntano i primi cipollotti. Domenico ne raccoglie un mazzo per Davide che dovrebbe usarlo come oggetto di scena, invece lo addenta. Assaggio anch’io. Sono dolcissimi, freschi: un sapore inatteso.

Prima di diventare cipolla rossa di Tropea Calabria IGPla cipolla era coltivata da oltre duemila anni, portata su queste coste dai Fenici. Terreni fertili di tipo sabbioso, suoli profondi con tessitura argillosa, ricchi di sostanza organica e acqua. E poi un tipico microclima mediterraneo: freddo e umido d’inverno, caldo d’estate, senza eccessivi sbalzi di temperatura.

La cipolla rossa di Tropea è molto digeribile ed è l’unica cipolla al mondo dolce, proprio perché il microclima mite ne esalta le componenti zuccherine.

Domenico era emigrato al nord e in Francia per studiare e lavorare, poi la nostalgia della Calabria l’ha spinto a tornare, accompagnato dall’intuizione che negli antichi prodotti della sua terra potesse esserci un futuro di sviluppo e di benessere. Ha affiancato i genitori, dando un’impronta moderna all’azienda di famiglia che si occupava solo di coltivazione e commercio di ortaggi e frutta.

Da allora segue tutta la filiera di produzione, dalla semina alla trasformazione, lavorando la cipolla rossa di Tropea in maniera completamente artigianale. Nelle sue mani, le cipolle diventano raffinate specialità gastronomiche: alta qualità mediterranea in olio extravergine di oliva, senza conservanti né coloranti.

Ci trasferiamo nel suo laboratorio, tra moderne vasche in acciaio e tradizionali pentole di rame. Il prodotto fresco viene accuratamente pulito e preparato, poi la cottura è una questione da chef, con pochi ingredienti e molta sensibilità. Davide affianca Domenico e la moglie ai fornelli, mescolando, tritando, salando, soprattutto assaggiando.

La specialità di Domenico è la mousse di cipollauna particolare marmellata di cipolla rossa di Tropea con aggiunta di uva passa e aromi, da gustare soprattutto con i formaggi e le carni.

Un altro prodotto interessante è la cipolla marinata di Donna Canfora, realizzata secondo un’antica ricetta araba del Cinquecento. Ha un gusto delicatissimo, con un lieve sapore di menta, ideale con gli antipasti e le insalate. Mentre segue la cottura, Domenico racconta la storia di Donna Canfora, nobile e bellissima vedova, che aveva dedicato la propria esistenza al ricordo del marito, vivendo in cucina ed elaborando ricette segrete.

Un giorno, un avventuriero del mare sbarcò sulla costa, se ne innamorò e la rapì con l’inganno. Ma donna Canfora si uccise gettandosi in mare, preferendo la morte al disonore. Da quel momento, le sue ricette divennero popolari e giunsero fino a noi.

Come si diceva, questa è una terra forgiata nel mito e insaporita al fuoco lento della leggenda. Una costa meravigliosa, spesso abbandonata e dimenticata, dove ogni pietra potrebbe costituire un tesoro e il capitolo di una narrazione.

Davide si toglie la parannanza e indossa gli abiti civili. Nel corso del servizio ha tagliato un bel po’ di cipolle. Dietro gli occhiali argentati, noto però occhi asciutti e senza arrossamenti.

«Non hai mai pianto tagliando tutte quelle cipolle?» gli domando un po’ stupidamente. Lui mi guarda serio e probabilmente ripensando alle tante cose viste e pensate in questa trasferta in Calabria mi risponde:

«La cipolla di Tropea non fa mai piangere». Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Tropea e sulla costa di Capo Vaticano; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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Il bergamotto della salute.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Brancaleone, il paesaggio la Costa Jonica Meridionale. Le coordinate geografiche sono 37°58’ Nord e 16°5’ Est.

Veniamo dalla piana di Sibari, all’estremità meridionale del Golfo di Taranto: la culla della Magna Grecia, stretta tra lo Jonio e la Sila. Un territorio dal clima favorevole dove cresce spontanea la liquirizia, una vera eccellenza d’Italia e di Calabria. Dopo trecento chilometri di macchina raggiungiamo la punta più a sud della penisolanel punto dove le onde del Tirreno si distendono oltre lo Stretto e incontrano quelle dello Jonio. Una specie di accoppiamento liquido, che crea un ambiente marino suggestivo e selvaggio, con i piedi delle montagne che affondano nelle lingue di spiaggia. Su questo litorale vengono a riprodursi le tartarughe Caretta caretta, mentre nei campi a ridosso della costa crescono i bergamotti. Anche qui siamo stretti tra le onde e le rocce – in questo caso dell’Aspromonte – e anche qui il clima permette una coltivazione esclusiva. Non ci sono altri posti al mondo dove il bergamotto fiorisca e fruttifichi: un’altra eccellenza d’Italia e di Calabria.

Incontriamo Fabio, il protagonista della puntata, e lo seguiamo nei suoi campi. L’erba alta, punteggiata di fiori di campo, è zuppa d’acqua della pioggia di ieri. Sullo sfondo del mare il sole si sta alzando e illumina le montagne alle nostre spalle. La luce ha una magia particolare e Massimo, il nostro regista, mette fretta al gruppo. Prima però c’è il rito della vestizione ed è proprio Massimo a guidare le operazioni. Non avendo stivali a disposizione, era stato lui – previdente – a chiedere in albergo alcuni sacchi neri della spazzatura, degli elastici e un rotolo di nastro adesivo. Con quell’armamentario copriamo le scarpe e quando infine entriamo nel campo assomigliamo a un gruppo di bambini che giocano agli astronauti. Siamo ridicoli, però il sistema funziona e ci permette di muoverci in libertà, scegliendo gli angoli più inusuali e seguendo Davide che si appassiona ai bergamotti e ne mangia in continuazione, respirando il profumo intenso dei frutti.

Quando si siede dice:
«Qui mi sento come a casa! Una casa molto profumata!». Poi coglie un altro bergamotto e lo addenta come fosse una mela.

Il bergamotto è un agrume particolareLa scorza è ricchissima di olii essenzialiprofumatissimi, che può essere mangiata insieme alla polpa. Il frutto è piacevolmente aspro, ma la buccia lo ingentilisce, come un tocco di zucchero naturale.

Il profumo è amplificato dall’acqua della pioggia e della rugiada che si sta asciugando al sole. Davide continua a mangiare e io lo imito. Taglio il frutto a spicchi con un coltello e lo gusto mente Fabio mi racconta la sua storia di coltivatore e trasformatore di bergamotti. La sua famiglia coltiva questa pianta da molte generazioni.

«Ma è sempre stato un prodotto povero e locale, – spiega. – Certe annate non valeva nemmeno la pena raccoglierlo».

Lui però ha dato uno sviluppo imprenditoriale all’attività, creando un’azienda interamente dedicata alla lavorazione del bergamotto, pensata e realizzata per seguire tutta la filiera e sfuggire ai vincoli degli intermediari.

«Negli ultimi anni è stato provato scientificamente che il succo del bergamotto è un potente anticolesterolo naturale ricco di flavonoidi, – aggiunge Fabio, – e questo ha permesso di rivalutare il prodotto fresco che prima era considerato quasi uno scarto».

Oggi, i migliori bergamotti sono venduti al mercato e richiesti da un pubblico di consumatori sempre più ampio e attento. Adesso siamo in piena raccolta, una fase delicatissima che si svolge a mano per non rovinare i frutti, soprattutto la buccia da cui si ricava l’olio essenziale.

Il bergamotto è un agrume generoso, pieno di qualità. Ricapitolando: appena colto si mangia fresco, dalla polpa si realizzano marmellate e succhi, con gli olii essenziali si producono – oltre ai profumi – anche liquori, miele aromatizzato e biscotti di vario genere. Fabio mi parla con orgoglio del suo attuale prodotto di punta: il succo di bergamotto congelato. Ha appena installato in laboratorio una cella di sedici metri quadrati, dove abbatte il succo purissimo ricavato dalla prima spremitura del bergamotto, subito dopo l’estrazione degli olii. Un prodotto ideale per le pasticcerie, le gelaterie e i ristoranti, che espande ulteriormente i confini del mercato.

«Ma quanto è grande il vostro campo?» chiedo incuriosito.

«Il nostro è una decina di ettari, tutti a bergamotto, – risponde Fabio, – ma acquistiamo e trasformiamo il raccolto di oltre centocinquanta piccoli produttori locali. Oggi gestiamo circa un quarto di tutta la produzione di bergamotto della costa jonica meridionale».

«Cioè del mondo?»

«Cioè del mondo!»

E allora, terminate le riprese nei campi ci trasferiamo in laboratorio, per vedere cosa succede al frutto dopo la raccolta. La tecnica di estrazione è semplice, ma vanta un’antica tradizione che risale addirittura al Settecento e appartiene anch’essa alla storia di Calabria. All’inizio era un processo manuale che consisteva nel tagliare i frutti a metà, cavare la polpa e comprimere con un movimento rotatorio delle mani la scorza contro una spugna naturale che assorbiva l’essenza sprizzata dagli otricoli del frutto.

Alla metà dell’800, sempre in Calabria, è stato ideato il primo sistema meccanico di estrazione dell’olio essenziale: lo stesso principio viene utilizzato ancora oggi.

C’è una grande vasca piena d’acqua, costantemente riempita di frutti, con una linea di cestelli che s’immergono e pescano i bergamotti portandoli in lavorazione. La macchina è semplice, con i rulli e i meccanismi quasi a vista. Per la gioia della nostra telecamera, gli operai di Fabio la smontano mentre lavora e ci permettono di filmare tutto il processo. Un lavoro lungo, delicato e minuzioso. Davide tocca con un dito il filo di olio essenziale che cola nel recipiente di raccolta. Guardando la telecamera spiega che «per produrre un chilo di essenza servono oltre duecento chili di frutti freschi!».

Decido di scattare alcune fotografie che documentino le fasi di lavorazione. Giro attorno alla macchina quasi inebriato dal profumo di bergamotto e noto un residuo di polpa e scorza che immagino sia l’unico materiale di scarto. Ma il bergamotto è un frutto generoso.

«Si chiama pastazzo, – mi dice Fabio. – Lo usiamo per estrarre le pectine ed è molto richiesto dall’industria farmaceutica».

Respiro profondamente le ultime boccate d’aria al bergamotto. Abbiamo quasi terminato il lavoro. Fabio sorride e aggiunge:

«Sai che l’aroma del bergamotto combatte l’ansia, la depressione ed è un efficace calmante. E poi è antibatterico e antinfiammatorio: un vero toccasana per le vie respiratorie».

Davide e io ci guardiamo mentre Fabio si allontana e scompare tra le centinaia di cassette colme di bergamotti ancora da lavorare.

«Un vero frutto della salute!» esclamo.
Lui annuisce e assume un’espressione seria:
«Un dono della terra, che trascuriamo e disprezziamo. Siamo avidi, e nemmeno conosciamo le nostre ricchezze…»

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Brancaleone, sulla costa jonica meridionale; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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