Archive for gennaio, 2016

Olive cento per cento.

Oggi siamo in Trentino Alto-Adige. Il paese è Riva del Garda, il paesaggio l’Alto Lago. Le coordinate geografiche sono 45°53’ Nord e 10°50’ Est.

Sono in macchina con Marco, il nostro operatore. Ormai è buio, quasi ora di cena.
– Fame? – domando.
– Un po’… è lunga da Genova…
Lo guardo e sorrido. Questo è forse l’ultimo viaggio che facciamo insieme. La vita gli ha offerto un nuovo lavoro e lui ha accettato. Ci mancheranno molto, Marco e le sue inquadrature.
– Forse passando da Peschiera e Affi avremmo fatto prima – dico a bassa voce, tanto per cambiare discorso e non pensare alle riprese di Paesi, paesaggi dopo di lui.
– Però – aggiungo subito dopo – vuoi mettere l’autostrada con il lungolago?

Abbiamo entrambi fame, ma la strada è bellissima. Sarebbe da fare in moto al tramonto, ma anche in macchina e di notte ha il suo fascino. Curve e controcurve, gallerie scavate nella roccia viva, la montagna ripida sulla sinistra e il lago sulla destra, con le luci dei paesi che si riflettono sull’acqua ferma e scura. Il tempo vola e all’ora di cena siamo pronti a incontrare il resto della troupe. Davide è in gran forma, rilassato e brillante. Massimo, il regista, è invece un po’ stanco mentre Gianluca, lo scenografo, è eccitato. Ha appena terminato una serie di nuovi quadri, ha trovato un gallerista e pensa solo a dipingere. Infine Marco, il nostro direttore di produzione. Se non ci fosse lui, durante le riprese ci perderemmo per strada.

Con noi ci sono anche Massimo e Furio, i protagonisti della puntata. Furio è il tecnico, un ragazzo alto che viene dall’enologia; Massimo è il manager, l’organizzatore, il commerciale, tante cose insieme che producono tutte ottimi risultati. La loro creatura è una grande cooperativa agricola, con oltre 350 soci che conferiscono olive e uva. Noi ci occuperemo di olio biologico di altissima qualità, ma affronteremo il tema da una prospettiva insolita e parleremo di un’idea rivoluzionaria che Massimo e Furio stanno sperimentando da un paio d’anni con l’Università di Perugia. Si tratta di una macchina che permette di utilizzare e trasformare ogni parte dell’oliva, senza scarti.

Mentre ceniamo e discutiamo della sceneggiatura, entriamo nel vivo della puntata. Massimo spiega che dopo la frangitura solo il 15% dell’oliva diventa olio. Il resto è un mondo tutto da scoprire, a partire dal nocciolino che è un eccellente combustibile naturale con un altissimo potere calorifico.
– Pensate che un chilo di nocciolini di oliva riscalda come mezzo chilo di petrolio! – esclama Massimo.

Poi c’è la sansa, la parte solida della spremitura: ottimo cibo per gli animali, ricchissimo di polifenoli. Il resto dell’oliva, circa il 50%, invece è liquido. L’ingegnosa macchina che scopriremo domani nel frantoio, rielabora proprio questa parte di scarto del frutto. Come una marmitta catalitica la trasforma in acqua vegetale, priva di sali minerali, che può essere addirittura bevuta oppure impiegata per altri scopi, legati ad esempio alla detergenza o al raffreddamento. Facciamo un po’ di conti, considerando che quest’acqua costituisce grosso modo il 30% dell’oliva. Il frantoio di Massimo e Furio spreme circa 9000 quintali di olive all’anno, ricavando oltre 3000 quintali d’acqua che non viene prelevata da alcun pozzo. La legislazione non è ancora pronta, ma è facile immaginare che in un prossimo futuro potrà essere impiegata anche per uso alimentare.

polifenoli antiossidanti sono infine presenti in concentrazione altissima nel restante 20% dell’oliva. Ed è proprio questo sciroppo denso, dalla colorazione dorata, il vero tesoro. Un concentrato di sicuro interesse per l’industria farmaceutica e cosmetica. Al momento, Massimo e Furio lo usano come concime fogliare per le viti e gli olivi. Restituiscono alla terra ciò che la terra ha donato.
– Se pensiamo che in Italia si raccolgono oltre 30 milioni di quintali di olive all’anno – conclude Massimo – quanto concime, quanto combustibile e soprattutto quanta acqua potremmo avere dalla natura?
– E se fosse proprio l’oliva il nostro oro verde? – domanda Davide.
Massimo e Furio sorridono e tacciono. Domani scopriremo tutto con i nostri occhi.

L’indomani mattina arriviamo presto in azienda. La cooperativa è nata dal legame degli agricoltori per la loro terra, bellissima e generosa. Ieri sera, Marco e io potevamo solo intuirla, oggi invece catturiamo con la macchina da presa distese di oliveti e vigneti che circondano il lago attorno a Riva e a Torbole, arrampicandosi sui primi declivi delle Dolomiti. L’azienda è stata fondata nel 1926, ma nasce da un precedente e antico consorzio di origine austro-ungarica. Oggi è diventata un punto di riferimento per tutti gli agricoltori della zona: il cuore pulsante di un sistema integrato di sviluppo del territorio che offre consulenza e trasforma, commercializza e valorizza i raccolti.

L’infilata spettacolare di botti d’acciaio nasconde la macchina sperimentale per il riuso delle olive, parcheggiata in un angolo un po’ defilato del frantoio. È particolarmente bella nella sua essenzialità. Sembra il computer di un hacker, groviglio di fili e cavi e parti meccaniche che una volta in funzione vibrano e scuotono l’ambiente. Mi ricorda la macchina magica del professor Balthasar, il protagonista di un cartone animato che guardavo da bambino. Con quella macchina, Balthasar reinventava il mondo. Ma quella era fantasia, questa invece è realtà che supera la fantasia.

In chiusura ci occupiamo del territorio e realizziamo le inquadrature che nel servizio monteremo per prime. Davide cammina nel porticciolo lungo la riva del lago, percorre le vie selciate del centro storico, poi attraversa i filari di olivi cercando il luogo dove posare la sedia e sentirsi come a casaRiva del Garda è un piccolo paradiso, l’antica residenza estiva dei principi di casa d’Austria. Siamo lontani dalle grandi vie di transito; da queste parti si viene, non si passa. Da un lato il blu intenso dell’acqua, striata di bianco quando si alza l’Ora, il vento del pomeriggio; più in là, verso i monti, il verde dei campi, e in mezzo l’eleganza della città con le sue testimonianze scaligere e veneziane.

A un tratto vedo un anziano signore che attraversa di corsa la piazza e raggiunge Davide. Gli stringe la mano e gli parla della sua terra d’origine, la Valvestino. Una zona di mezza montagna, poco distante, a circa mille metri d’altezza. Lì ci sono pascoli di malga e si produce il Tombea, un formaggio d’alpeggio tipico. Mi avvicino e ascolto con interesse le parole di quel misterioso signore mentre descrive le case della sua valle, con i tetti spioventi ricoperti di fieno e paglia. Non abbiamo ancora terminato di girare una puntata e già ne cominciamo un’altra.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Riva del Garda, tra gli oliveti dell’Alto Lago; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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La regina di San Daniele.

Oggi siamo in Friuli Venezia-Giulia. Il paese è San Daniele, il paesaggio l’Anfiteatro Morenico. Le coordinate geografiche sono 45°27’ Nord e 9°11’ Est.

Verso sera, poco prima di cena, ci troviamo tutti davanti all’ingresso dell’albergo. Abbiamo prenotato da Toni, a Gradiscutta. Le macchine sono là fuori, nascoste nella nebbia che mi ricorda quella di Milano negli anni settanta. La cosa che non scordi mai della nebbia, quando l’hai respirata da bambino, è l’odore. Quasi un sapore, da gustare con le narici prima che con il palato. Il freddo è pungente, ma l’aria è buona, mescolata ai ricordi d’infanzia. Accendo il motore e i fari. La luce rimbalza sulla nebbia e si riflette nel ghiaccio che ricopre i vetri.
– Ma dobbiamo proprio uscire? – borbotto a me stesso.
Un istante d’incertezza, poi squilla il telefono. È Davide
– C’è troppa nebbia, Luca… restiamo qui.
Tiro un sospiro di sollievo. Esco dalla macchina e rientro in albergo. Oggi si mangia tranquilli e in pantofole, davanti al fogolâr che non manca mai in una casa friulana. Ci raggiunge Mauro, il protagonista della puntata. La cena sarà l’occasione per rileggere la sceneggiatura, decidere le inquadrature e soprattutto conoscerci.

Mauro ha raccolto l’eredità del padre e gestisce l’attività di famiglia: allevamento naturale e lavorazione artigianale delle trote del Tagliamento. Un’attività nata negli anni sessanta, un po’ per caso, molto per passione. Ci sediamo l’uno di fronte all’altro. Lui parla, io ascolto. Mi accompagna nella storia della sua famiglia, tra i tanti mestieri del padre: una vita segnata da un forte legame con il territorio e una dedizione quasi assoluta alla cultura del lavoro. Ma anche una vita di coraggio, libertà di pensiero, capacità di immaginazione.
– Mi dicevi del papà e delle sue attività?
– Lavorava in condizioni sempre molto difficili – ricorda Mauro – Solo che si dava così tanto da fare che riusciva anche a mettere via dei soldi. E appena cresceva, si lanciava in una nuova avventura.

All’inizio aveva un piccolo campo, con una mucca che gli dava del latte. Poi, con i primi debiti e il ricavato del suo lavoro acquistò un trattore. Nuovi debiti e nuovo lavoro: dal trattore passò al camion. Sempre lavoro e sempre debiti. Tutti i giorni a prendere sassi dal Tagliamento e a caricarli sul cassone del mezzo; poi in giro per l’Italia a venderli per farli diventare sabbia e cemento. La gente lo guardava e pensava che fosse matto. Addirittura un incosciente, quando acquistò una cava sul Tagliamento. E siccome amava la pesca e il buon cibo, nelle acque del suo laghetto liberò alcuni avannotti di trota.

Dalla cava all’allevamento il passo fu breve: però difficoltoso e tormentato.
– L’alimentazione delle nostre trote è sempre stata rigorosamente naturale e la densità della popolazione molto bassa – spiega Mauro – quindi il prodotto era già allora eccezionale, ma costoso. A un certo punto non potevamo più gestirlo come un passatempo; dovevamo decidere se continuare con la cava oppure passare alle trote. Ancora una volta si trattò di una scelta coraggiosa, dettata soprattutto dalla passione e dalla fiducia nei propri sogni. L’intuizione era stata quella di trasformare una buona trota del Tagliamento in una vera Regina di San Danieleun pesce di qualità superiore pronto da consumare, pulito e affumicato a regola d’arte, da mangiare in casa propria come al ristorante.

La chiave di tutto, per rendere interessante un pesce in fondo un po’ noioso, era l’affumicatura. E Giuseppe – così si chiamava il padre di Mauro – si mise nuovamente al lavoro, acquistando un vagone delle ferrovie che era stato utilizzato come ricovero durante il terremoto. Da lì, da quel vagone dismesso, è partita l’attività che oggi marcia come un treno in corsa.
– Agli inizi, a dire la verità, procedeva piuttosto lentamente – ricorda Mauro. I primi tempi sono stati alcuni amici chef a darci il coraggio di continuare, dicendo che il nostro prodotto era il migliore di tutti.
– E cosa avete fatto?
– L’unica cosa che sapevamo fare: lavorare. Abbiamo continuato a lavorare, cercando di migliorare sempre di più la qualità. Bisognava controllare minuziosamente tutta la filiera, dall’allevamento alla lavorazione, dal confezionamento alla distribuzione.

Il giorno delle riprese partiamo dal Tagliamento, dove il pesce nasce e si sviluppa lentamente, in maniera del tutto naturale, arrivando a una decina di chili in circa otto anni. Acque fredde e limpide, ricche di cibo e di correnti. Il movimento continuo tonifica le carni, lasciando solo un filo di grasso che le rende morbide e ricche di Omega3.

– Buone trote si nasce, ma Regine di San Daniele affumicate si diventa! – esclama Davide rivolgendosi alla macchina da presa, mentre passeggia con la sedia in spalla sulla riva del fiume. Dopo l’acqua della natura, ci trasferiamo nel laboratorio dell’uomo. Si comincia con la spinatura a mano, per togliere anche le lische più piccole. Quindi la salatura, con sale secco che penetra lentamente nelle carni, toglie l’acqua e riduce il peso. L’industria fa esattamente il contrario: inietta la salamoia che aumenta il volume e riduce la qualità. Infine l’affumicatura, che non deve mai coprire il gusto del pesce. Mauro cerca un delicato e prezioso equilibrio di aromi che ha chiamato: sospetto di fumo. Si ottiene in maniera del tutto artigianale, con la combustione senza fiamma di trucioli di legna pregiata, con l’aggiunta di bacche e erbe aromatiche.

Tanto lavoro e nessun additivo, per realizzare trote salmonate affumicate, filetti agli agrumi, uova, guancialetti, carpaccio, aringhe sciocche e addirittura uno speciale salame di trota. I prodotti migliori sono sempre i più semplici. Ma la semplicità è la cosa più difficile da raggiungere. Dopo le riprese ci ritroviamo a degustare le specialità di Mauro in una bella sala sopra il punto vendita. Un grande tavolo bianco, una piccola cucina e tante opere d’arte come elementi d’arredo. Questa non è solo un’azienda modello, ma una casa. Il luogo di chi ha saputo realizzare i propri sogni senza cedere ai compromessi.

Prima di lasciare San Daniele vogliamo però girare alcune scene nel centro storico, in un paio di luoghi che meritano grande attenzione. Innanzitutto la biblioteca Guarneriana, la più antica biblioteca del Friuli e uno dei primi spazi pubblici di lettura e diffusione della cultura in Italia. Conserva preziosi codici miniati, incunaboli e libri antichi; l’aveva fondata nel Quattrocento Guarnerio d’Artegna, destinando alla comunità i manoscritti della sua biblioteca, perché se alcuno… volesse leggere o studiare potesse farlo nella stessa libraria e non altrove….

L’altro monumento che visitiamo e che ci aiuta a rendere in una manciata di secondi televisivi la percezione di quanto sia ricco di storia e di cultura un piccolo centro come San Daniele, è la chiesa di Sant’Antonio Abate. Edificata all’inizio del Trecento, danneggiata dal terremoto alla metà dello stesso secolo e infine ristrutturata nel corso del Quattrocento, oggi è una chiesa sconsacrata chiamata la Sistina del Friuli per la suggestione dei suoi affreschi rinascimentali. È un luogo magico, dove lasciarsi avvolgere dall’intensità delle pitture e delle loro scrostature. Un piccolo spazio che regala grandi emozioni, da visitare in silenzio, in punta di piedi e con il naso all’insù, come fanno i bambini quando guardano un aquilone in volo.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a San Daniele del Friuli, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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I pescatori del lago di Bolsena.

Oggi siamo nel Lazio. Il paese è Marta, il paesaggio il Lago di Bolsena. Le coordinate geografiche sono 42º 32′ Nord e 11º 55′ Est.

Davide e io saliamo in macchina e lasciamo le colline di Todi, nel cuore dell’Umbria. Non è tardi, ma è già buio. Guido io, lui controlla il navigatore. Di solito riusciamo a perderci. Davide non è mai stato a Marta, sul Lago di Bolsena, e mi chiede qualche informazione. Anch’io non sono mai stato in quell’antico borgo di pescatori, ma per preparare il servizio ho studiato un sito (meteomarta.it) che una vera miniera di notizie. Lo cura Luca, un giovane martano con la passione per la meteorologia e la sua terra. Senza il suo aiuto non avrei mai conosciuto Giuliano, il pescatore che ha promesso di accompagnarci a caccia di anguille e coregoni, maneggiando artavelli e reti finissime.

– Siamo quasi arrivati – dico a Davide mentre s’intravedono le prime luci sul pelo dell’acqua.
– Questo era il cratere di un vulcano spento – aggiungo indicando il lago – il più grande d’Europa.
– Marta deve essere laggiù.
La cittadina è proprio sulle rive del lago. Fino all’inizio del Novecento era conosciuta come la piccola Venezia, perché l’acqua sfiorava le abitazioni. Nel Seicento, un notaio di casa Farnese scriveva che Marta ha le muraglie attaccate al lago.
– Il borgo medievale è sul colle? – chiede Davide.
– Credo di sì. Deve essere molto suggestivo, realizzato con il tufo del vulcano, i vicoli, gli archi, la torre dell’orologio.

La prima cosa da fare, una volta in albergo, è indossare la tuta e uscire a correre. È venuto il momento di scoprire nella realtà le cose che ho imparato sul sito di Luca. Primi passi lenti, di riscaldamento. Poi sempre più svelti, lungo la passeggiata, da un’estremità all’altra del paese. Entro nel borgo dei pescatori. Da un lato le case, dall’altro le barche, con le reti stese ad asciugare tra gli scafi e gli alberi. In fondo al centro abitato, il molo si allunga verso il lago. Riconosco un artavello, una lunga nassa che i pescatori usano per le anguille. L’artavello è costituito da una serie di coni sempre più piccoli, infilati uno dentro l’altro in modo che il pesce – una volta entrato – non possa più uscire.

Fa freddo, ma la cosa che mi colpisce è l’umidità. Le strade e le macchine sono bagnate come se stesse piovendo. Decido di lasciare la riva del lago e salgo verso la torre dell’orologio, un bastione duecentesco di forma ottagonale costruito su una base a tronco di piramide. Mi fermo a prendere fiato e osservo l’orologio. È un Trebino. Da anni mi diverto a rintracciare questi orologi prodotti da quasi due secoli in un paesino dell’entroterra ligure, a un passo da casa mia. Sono montati su moltissimi torrioni e campanili in Italia e in Europa. Sotto un Trebino, ovunque mi trovi, mi sento come a casa.

L’indomani mattina, l’appuntamento con Giuliano – il pescatore protagonista della puntata – è alle cinque al bar. Beviamo un caffè e proviamo a svegliarci. I pescatori sono abituati a questi orari. Noi ci aggreghiamo volentieri perché speriamo di filmare l’alba sul Lago di Bolsena.
– Quando mi chiedono perché faccio il pescatore – confessa Giuliano – rispondo che se la gente vedesse i panorami che vedo io, tutti farebbero i pescatori. E allora via, alla scoperta del lago. La giornata non è ideale, ma la nebbia rende suggestivo il moto della barca, l’affiorare delle isole, il distacco lento dalle coste. I pescatori come Giuliano conoscono ogni scoglio, ogni tana, ogni metro del loro lago. Qui è sempre la natura a comandare: rende dura la vita, ma regala momenti di bellezza assoluta.

Appena sorge il sole, Massimo – il nostro regista – chiede a Giuliano di girare la barca, in modo che le reti siano in controluce e le immagini risultino più brillanti. Piccoli trucchi del mestiere: oggi la cosa importante non è pescare, ma rendere l’idea della pesca. Ma siccome la sceneggiatura prevede che qualcosa si peschi davvero, Giuliano smette di fare l’attore. È un grande pescatore. Mi piace vederlo lavorare. Si muove con naturalezza sulla barca, che ha una forma triangolare molto particolare. Lo scafo è piatto, per scivolare leggero sull’acqua e essere tirato in secca facilmente in caso di maltempo. La chiglia si appoggia sulla superficie del lago e rende la barca molto manovrabile. Si governa in piedi, con i remi incrociati. Catturare un pesce è sempre un’emozione. Giuliano lotta con un coregone intrappolato nella rete. Anche lui si stupisce delle dimensioni della preda.
– Portiamo fortuna! – esclamo.
– Questo ce lo mangiamo a pranzo.

Quando rientriamo in paese, Davide ci aspetta nel borgo con la sedia in spalla. Attraversiamo il centro storico e saliamo sulla torre. La vista dall’alto, un paio di metri sopra il Trebino, è notevole. Da un lato la distesa d’acqua, con le barche dei pescatori che attraversano l’orizzonte dietro le isole Martana e Bisentina; dall’altro la campagna, coperta di vigneti. Agricoltura e pesca sono le due risorse di Marta e del lago, dagli Etruschi a oggi. Scendiamo e ci spostiamo nell’incubatore, il luogo dove i pescatori allevano gli avannotti di coregone per la ripopolazione. Adesso le vasche sono vuote e Giuliano, con un paio di tavole di legno e una fiamma da campo, lo trasforma in un ristorante. Alcuni colleghi lo aiutano, ma è lui che ha la situazione in mano. Come altri pescatori che abbiamo incontrato nel corso di Paesi, paesaggi, Giuliano è un cuoco eccellente. Nella teglia sta cucinando il coregone e altri pesci più piccoli; nella pentola prepara invece la specialità di Marta e del Lago di Bolsena: la sbrosciauna zuppa di pesce con patate e cipolla.
– Allora, Giuliano, mi ripeti gli ingredienti?
– Ma che vuoi, Luca, non c’è niente di speciale: solo luccio, coregone, anguilla, patate, cipolla, mentuccia…
– Tutto qui? – domanda Davide.
– Tutto qui – sorride Giuliano.
– E il battutello con l’ingrediente segreto? – gli ricordo io.
– Ah, il battutello! Ma c’è solo un po’ di pepe, sale…

Davide prende un mestolo e assaggia la zuppa, che non è ancora pronta. Però è già buonissima, lo capisco dalla sua espressione. A un tratto, vedo che s’illumina in volto.
– È il lardo! – esclama – L’ingrediente segreto è il lardo!

Giuliano tace e sfoggia il suo sorriso più sereno. Poi prende il mestolo e assaggia anche lui. Nessuno cucina il pesce come i pescatori. Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Marta, sul Lago di Bolsena; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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Il mulino di Bert.

Oggi siamo in Friuli Venezia-Giulia. Il paese è Codroipo, il paesaggio il Parco delle Risorgive. Le coordinate geografiche sono 45°57′ Nord e 12°58′ Est.

Siamo a un passo dal Tagliamento, il grande fiume che accoglie nel suo letto un intreccio di corsi d’acqua e isole di sabbia e sassi. La nostra steppa del nordest, un ecosistema unico, corridoio di piante e animali tra le Alpi e l’Adriatico, le montagne e il mare. Ci fermiamo sul ponte, intralciando come al solito il traffico. Un rapido passaggio di Davide con la sedia in spalla, poi raggiungiamo l’argine e scendiamo sul greto pietroso del fiume. Davide cammina sull’orizzonte asciutto e grigio dei sassi aggirando le pozze d’acqua. L’acqua è importante nella puntata di oggi e Massimo – il nostro regista – ha pensato a una serie di inquadrature che ne esprimano la forza e il fascino.

Ci allontaniamo e torniamo alle macchine, mentre lui resta giù al fiume, a cercare nella realtà le immagini che ha in mente. Lo vediamo al centro di un canale laterale, con l’acqua che scorre un dito sotto il bordo degli stivali; immerge la telecamera, poi lascia che la corrente gorgogli intorno all’obiettivo, infine la solleva a mezz’aria e la punta verso il cielo. Non so bene cosa stia facendo. So che nel montaggio finale, in quel punto del servizio, Davide dirà: «L’acqua domina tutta l’area di Codroipo, ricchissima di sorgenti naturali. L’acqua è vita ed energia: scorre e alimenta le pale del mulino di Bert».

Per raggiungere il mulino di Bert lasciamo il Tagliamento e ci spostiamo un passo più in là, nel Parco delle Risorgive; poi seguiamo il corso della roggia Sant’Odorico, che scende da Gemona e si getta nel fiume Stella dopo aver mosso le antiche pale del mulino. Con noi c’è Cristian, il protagonista della puntata assieme al padre Bert. Il mulino risale alla metà del Quattrocento e appartiene alla loro famiglia dalla fine del Settecento. E’ un luogo straordinario, armonia di architettura, meccanica e idraulica: un museo vivo di storia del lavoro e cultura materiale. All’esterno dell’edificio ci sono quattro grandi pale; mosse dall’acqua della roggia danno vita alle macine a pietra naturale. La ruota principale misura quattro metri di diametro ed è stata costruita a mano sul posto.
– Erano venuti i tecnici dall’Austria, – mi spiega Cristian. – Ingegneri e operai accampati fuori dal mulino per costruire la grande ruota. Era costata come mezzo Friuli…

Il richiamo del movimento delle pale è irresistibile e attira le nostre telecamere. C’è quella ufficiale di Massimo e Marco, ma c’è anche la mia, impegnata a filmare il backstage. Ho già ripreso la sosta sul Tagliamento e poi Massimo nel cuore di Codroipo che danza con un’ignara passante al suono delle campane dell’Immacolata. Adesso mi concentro sulle pale, filmando Massimo che si arrampica sul greto della roggia e si sporge tra l’acqua e il metallo. Il movimento delle ruote è lentocontinuoipnotico. Il suono dell’acqua che scorre è come un basso continuo, accompagnato dalle ritmiche percussioni delle pale. Immersione, emersione, vapore di gocce sospese a mezz’aria. Il sole in controluce che le illumina mentre svaniscono come i pensieri quando diventano sogni.

Ma la vera magiaè all’interno. Dalla penombra emerge la figura di Bert. Camicia bianca, capelli bianchi, il volto bianco di farina. Sembra di essere all’interno di un antico orologio, nel meccanismo interno del tempo. Fusioni in ghisa in pezzo unico, ruote dentate, ingranaggi, leve: un gioiello di meccanica inventato e realizzato per macinare farina biologica.
– Papà ha iniziato più di trent’anni fa con il biologico – dice Cristian con orgoglio. – Adesso è diventato di moda ed è soprattutto una faccenda di bollini e etichette. Noi ne siamo usciti per sviluppare una nostra filosofia biologica, che parta dal campo e arrivi alla farina e alla tavola. Mi spiega che le pietre della macina girano molto lentamente, un giro al secondo, sessanta giri al minuto. Il chicco non viene frantumato, ma solo schiacciato, conservando il germe e tutte le proprietà del grano.

Osservo il lavoro di Bert e comprendo quanto sia complesso il mestiere di mugnaio. Il figlio lavorava nelle centrali nucleari, in giro per l’Italia e nel mondo; oggi lo affianca a tempo pieno. Occorrono la sensibilità dell’alchimista e la concretezza del meccanico. Con un occhio si controlla il movimento della moltiplica, con le dita si accarezza la densità della farina, con l’orecchio si registra il battito della macchina. Non si sta mai fermi, c’è sempre qualcosa di importante da fare. Piccole cose, tutte fondamentali.
– Papà è il mugnaio, io sono ancora l’apprendista – dice Cristian.
Naturalmente non è così, ma è bello sentirglielo dire.

Cristian e Bert non sono solo mugnai. Sono anche gli unici battitori artigianali di stoccafisso, il merluzzo essiccato all’aria. Attenzione a non confonderlo con il baccalà, che è invece il merluzzo sotto sale. Un mestiere antico che nelle loro mani diventa nuovo e affascinante. Un tempo erano i fabbri – che qui chiamano ancora battiferro – a preparare lo stoccafisso. Il mulino di Bert batteva invece la canapa e si è poi convertito al merluzzo essiccato. La pale del vecchio mulino muovono con rigorosa esattezza la testa del maglio: legno su pietra, due colpi al secondo, 250 chili ogni colpo. Sembra una batteria, invece è la musica che Cristian e Bert ascoltano tutti i giorni.

Il calore del legno sulla pietra – che sono cattivi conduttori – viene assorbito dallo stoccafisso. Le fibre si allungano, senza rompersi, e il pesce rimane un filetto unico, senza rotture. Cristian impiega più di un’ora per battere cinquanta chili di stoccafisso; l’industria meno di dieci minuti. Il risultato è un pesce di eccezionale morbidezza, capace di assorbire i condimenti come fosse appena pescato.

Le ultime inquadrature sono tutte per lo stoccafisso e la polenta del mulino di Bert, arrostita sulla brace del fogòlar friulano. Lo stoccafisso mantecato è meraviglioso; io però lo gusto con un piacere tutto particolare, che gli altri, i palati fini della compagnia, non possono cogliere. Oggi è martedì, ma per me è come se fosse venerdì. Sembra uno di quei venerdì a Genova, quando scendo in porto e pranzo con la mia famiglia: chi esce dal lavoro, chi da scuola, chi sbuca dai sogni, chi dai pensieri. Raggiungiamo la nostra osteria preferita, ci sediamo e ordiniamo. Io, naturalmente, stoccafisso accomodato: la mia passione. Ogni venerdì a Genova, stoccafisso.

La prossima volta, però, farò attenzione alla compattezza della fibra. Osserverò il filetto e chiederò se lo battono a mano o con i rulli.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite a Codroipo, nel Parco delle Risorgive e nel mulino di Bert. Ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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