Archive for novembre, 2015

Venezia, Giudecca: pesca alle moecche.

 

 

 

 
Con “Paesi, paesaggi” siamo a Venezia, alla Giudecca, con gli ultimi pescatori di moecche.
Ma cosa sono le moecche?
Sono i granchi, che due volte all’anno – in primavera e in autunno – mutano il carapace e rimangono senza corazza. Allora sono commestibili e diventano uno dei piatti più ricercati della tavola veneziana.

Questo è il backstage del servizio che andrà in onda su Striscia la notizia.

I fagioli bianchi di Conio.

Oggi siamo in Liguria. Il paese è Conio, il paesaggio l’Alta Valle del Maro. Le coordinate geografiche sono 43°58’ Nord e 7°53’ Est.

Partiamo da Imperia e seguiamo la strada in salita. L’abbiamo vista sulla carta e non abbiamo dubbi. Qualche curva morbida: Davide accanto a me chiacchiera, racconta di nuovi progetti e idee che srotola tra le pareti boschive dell’entroterra, sempre più fitte a mano a mano che saliamo. Dietro di noi c’è la macchina di Gianluca, il nostro scenografo e arredatore: un uomo con il cervello nelle mani, a modo suo un genio capace di costruire pozzi di petrolio in miniatura con una manciata di fiammiferi.
Scolliniamo e qualcosa non torna.
– Ci siamo quasi, vero? – domanda Davide.
Io non rispondo, accosto e imposto il navigatore di cui pensavo di fare a meno.
– Credo che abbiamo sbagliato strada.
Proseguiamo dritti ancora un po’. Davanti al cartello di Vessalico ci fermiamo e accostiamo nuovamente.
– Abbiamo sicuramente sbagliato strada.
Esco dalla macchina e raggiungo Gianluca. Lui è molte cose insieme: uno scenografo – appunto – ma anche un pittore e un pilota di auto da corsa. Possiede un telefonino spettacolare che aggancia i satelliti come un cane affamato azzanna l’osso.
– Ho perso il segnale e siamo andati lunghi – dico per giustificarmi.
Gian non batte ciglio: i problemi sono opportunità. Ripartiamo, lui davanti e noi dietro. Attraversiamo una lunga cresta pianeggiante aperta su tutti i versanti. La giornata è magnifica e il paesaggio è nitido, come appena lucidato.

A un tratto, Gianluca imbocca una strada stretta in discesa. È molto bella, con l’asfalto autunnale coperto di foglie. È anche molto ripida.
– Questa strada non si fa col ghiaccio – dice Davide.
– Nemmeno con la neve – aggiungo io.
– In salita ci vuole la prima.
– Ma sarà la strada giusta?
È la strada giusta. Forse non la migliore, ma comunque giusta. Quando arriviamo ai piedi di Conio, Massimo è già al lavoro. Il nostro regista cattura scorci di vallate, tra olivi taggiaschi, terrazzamenti, sentieri impervi e case in pietra che sbucano dai boschi.

Giusi, la protagonista della puntata, ci accoglie in piazza. Altrove, in piazza avremmo bevuto un caffè, ma a Conio non c’è il bar. Non c’è nemmeno un tabaccaio per le sigarette di Massimo, che risale in auto e si avvia verso Borgomaro. Noi invece andiamo su al castello, per vedere dove gireremo la parte finale del servizio. Non bisogna immaginarsi un castello medievale fortificato, piuttosto una signorile dimora di campagna, proprio in cima al paese arroccato sul colle. La posizioneperòè degna di una fortezza.

– Bello vero – dice il figlio di Giusi avvicinandosi a me e indicando il paesaggio che si stende sotto di noi fino al mare.
– Bellissimo. Cercheremo di filmarlo come merita, appena torna Massimo.
Appena torna Massimo, cerchiamo invece di recuperare il tempo perduto e ci dirigiamo nei campi. Lasciamo le nostre macchine davanti al cimitero e saliamo sui mezzi dei padroni di casa: un ottimo sistema per non restare indietro e non sbagliare direzione, sui tratturi aspri dell’entroterra ligure. La giornata resta calda e luminosa, l’ideale per raccontare la storia del fagiolo bianco di Conio. Si tratta di una coltivazione antica che si pratica oggi come secoli fa. Poche famiglie di agricoltori locali tengono in vita una tradizione che è anche un tratto distintivo del territorio. Si sono riuniti in un consorzio di tutela e applicano un rigoroso disciplinare di produzione.

Si comincia a giugno, con la semina. Poi si tengono puliti i campi senza impiegare diserbanti e si concima solo con stallatico naturale.
– Usate il concime di Aldo? – chiedo a Giusi, sapendo che conosce bene il nostro amico delle pecore brigasche.
– No – mi risponde lei – Aldo è troppo lontano. Ci sono un po’ di mucche qui intorno.

In autunno, quando i baccelli seccano sulle piante, si raccolgono e si pestano sulle reti per separare i semi dalle scorze. Infine, si svolgono le delicate operazioni di cernita e di selezione, quindi il confezionamento nei sacchetti bianchi di tela grezza con il marchio di qualità. Naturalmente, tutto viene fatto a mano. A nessuna macchina è permesso di entrare nel ciclo di lavorazione.

Ma il segreto di questo lungo e faticoso processo di produzione, oltre alla tenacia degli agricoltori, al clima favorevole e alle caratteristiche del terreno, è la qualità dell’acquarigorosamente sorgiva.
– Dove scorre il fiume? – domanda Massimo, pensando alle riprese.
– Qui è pieno di corsi d’acqua – esclama Giusi.
– Sì, ma il più bello, il più spettacolare?
– Il mulino.
E allora tutti su, verso il vecchio mulino a acqua ristrutturato e abitato da una coppia di tedeschi.

Ci avviciniamo con cautela: siamo in casa d’altri. Il cane – tedesco – abbaia e noi ci fermiamo. Lui avanza e noi indietreggiamo. Giusi, che lo conosce bene, gli urla qualcosa in dialetto. Si capiscono al volo. Nel frattempo esce di casa il padrone del mulino e ci saluta cordialmente. Noi gli chiediamo se possiamo effettuare delle riprese nella sua proprietà. Cerchiamo l’acqua sorgiva. Lui sorride e ci lascia entrare. Superiamo la grande ruota del mulino, giriamo intorno alla casa e raggiungiamo il torrente. Non potevamo immaginare tanta bellezza. Sotto il mulino, dove la valle si stringe nel bosco, l’acqua scorre saltando da una pietra all’altra, scivolando sul muschio.

Davide si china e beve.
– Peccato che sia in ombra – dice Massimo puntando su di lui la telecamera.
– Qui è sempre in ombra – esclama il tedesco.
Davide solleva la testa verso di noi.
– I mulini a acqua in montagna sono spesso nelle gole – dice asciugandosi le labbra. – Fateci caso, sono sempre dove l’acqua salta sulle rocce e scende con forza.

Giusto, non ci avevo mai pensato. Anche il tedesco, che nel frattempo è diventato un esperto di storia dei mulini a acqua, annuisce con evidente soddisfazione.
– Complimenti – aggiunge Davide stringendogli la mano – un bel restauro.

Era venuto da queste parti in moto molti anni fa. Poi aveva visto il mulino abbandonato ed era tornato per capire se si poteva acquistare. L’ha preso, restaurato e adesso che è in pensione ci vive con la moglie. Ha lasciato la Germania e sembra contento di questa pace, condita di buona musica, letture, passeggiate nei boschi, camino acceso e vista ampia, dalle creste al mare. Il suo cane torna ad abbaiare mentre ci allontaniamo per tornare a Conio. Questa volta è solo un saluto.

Raggiungiamo il castello, dove Giusi ha preparato la tavola e sta cucinando una zuppa. Ore di cottura a fuoco lento, con carni, verdure e naturalmente i fagioli bianchi di Conio. Davide non si lascia sfuggire l’occasione. Prima però prende tra le dita alcuni fagioli e li schiaccia delicatamente per mostrare alla telecamera la morbidezza della buccia, talmente sottile da sembrare inesistente. I fagioli bianchi di Conio sono talmente delicati che si legano benissimo anche al pesce: un vero prodotto ligure, che unisce i sapori del mare a quelli della montagna.

A proposito di Liguria che guarda il mare dalla montagna, è venuto a trovarci anche Aldo, il nostro amico delle pecore brigasche che domani guiderà la transumanza al contrario, dal Monte Saccarello a Bastia. Sarà un viaggio di tre giorni, per boschi e strade, sentieri e villaggi, con centinaia di capi al seguito. Sarà anche una grande festa, com’è sempre stata e com’è giusto che sia.

Anche noi facciamo festa, con la zuppa di Giusi e i suoi fagioli bianchi.

Venite a Conio, nell’Alta Valle del Maro; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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La musica della natura.

Oggi siamo in Valle d’Aosta. Il paese è Cogne, il paesaggio il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Le coordinate geografiche sono 45°27’ Nord e 9°11’ Est.

Mentre guido verso Aosta, sento di avere bisogno di una doccia. Lo dico a Davide, che sorride e tace. Abbiamo ancora sulla pelle le emozioni vissute nella valle del Loo, dove siamo stati a conoscere Simone e la sua toma di Gressoney. La corsa su è giù per le montagne, la grandine mista al sole, il vento e l’umido affumicato della baita: il ricordo scorre fluido dal Lys al Gran Paradiso. Usciamo dall’autostrada e cominciamo a salire le curve morbide che ci portano ai prati di Sant’Orso. Abbiamo appuntamento per cena con Laura, il nostro angelo custode a Cogne. Insieme abbiamo deciso di dedicare un servizio alla musica della sua vallemusica della natura e degli uomini. Percorriamo lentamente gli ultimi tornanti dietro a un pullman di turisti slavi; Davide legge ad alta voce la sceneggiatura. Sottolinea alcuni passaggi che ritiene importanti e mi chiede dove gireremo le scene. Sono preparatissimo perché lavorare con Laura significa pianificare tutto e non lasciare niente al caso. Tra poco ceneremo insieme e avremo modo di ripassare i dettagli. Prima però dobbiamo assolutamente fare una doccia.

Alle otto in punto, Laura viene a prenderci con il suo grosso fuoristrada, le fiancate macchiate di fango, le ruote rese lisce dai sentieri di montagna. Ci accompagna nell’albergo di famiglia, forse il più bello della valle. Non quella di Cogne, ma la Valle d’Aosta. Davide, che se ne intende, dice così. Io non ero mai stato in questo luogo delizioso, però mi ero spesso fermato ad annusare il profumo intenso di eucalipto e oli essenziali che proviene dal terreno sottostante. La spa dell’albergo è lì sotto, con la piscina, la grotta di sale, la sauna agli agrumi e quella al fieno. Passeggi per Cogne e ti avvicini al punto magico del centro benessere: quando ci sei sopra e come se ci fossi dentro. Rilassante anche a distanza.

Laura indossa gli abiti tipici. Non proprio i costumi tradizionali, ma gonna e gilet di lana cottacamicia bianca ricamata di cotone grezzo: una specie di uniforme che le permette di essere sempre ambasciatrice della sua terra.

Mangiamo con la calma che il luogo merita, ma poi ci dirigiamo subito nella casa museo dove è in corso una specie di festa e ci attendono alcuni protagonisti della puntata di domani. Nella vecchia abitazione dove sono state recuperate le antiche architetture in legno e pietra, ci sono i bambini che suonano e ballano e s’inseguono tra le gambe dei genitori pazienti, alcuni membri dei gruppi musicali di Cogne e gli artigiani del legno e del cuoio, accanto alle signore che ricamano al tombolo. Ci sono due campanacci che vorremmo avere per le riprese. Laura contratta il prestito e garantisce la restituzione, sotto sua responsabilità. Il campanaccio è una vera opera d’arte in lega d’ottone e cuoio lavorato: lo strumento che ogni mucca impara a suonare fin dalla più tenera età.

L’indomani cominciamo dalla natura. Davide cammina con la sedia in spalla sul prato che guarda il ghiacciaio. Si siede e chiede di fare silenzio. La valle è un’immensa sala da concerto, con le pareti ripide di rocce e boschi che la chiudono come i palchi di un teatro. Acustica perfetta, con il vento che scivola tra le foglie, l’acqua del ruscello che scorre tra i sassi, le vacche che escono dalla stalla e si disperdono sul pascolo attorno a noi. Melodie d’aria e note cristalline appena sussurrate.

Ma a Cogne la musica è ovunque, fa parte della comunità. Tra poco ci raggiungeranno una ventina di ragazzi e ragazze, con qualche anziano a fare da guida e i bambini a mettere ordinato scompiglio. Canteranno, danzeranno e suoneranno gli strumenti tipici: il tamburo e la fisarmonica cromatica. Però, prima che arrivino, dobbiamo tornare in paese per conoscere Adolfoil conciatore delle pelli e il realizzatore dei tamburi. Oggi è rimasto solo lui a fabbricarli, nel suo piccolo laboratorio domestico. Avremmo potuto filmarlo nelle belle stanze in legno della casa museo, ma abbiamo da tempo imparato che l’artigiano ricava il suo spazio attorno a sé e al suo lavoro. Così montiamo le luci e facciamo silenzio.

Adolfo ha già preparato alcune pelli di camoscio che concia nella cantina di casa.
– L’odore alle volte è insopportabile – mi confida con un sorriso – ma ci si fa l’abitudine, con il tempo.
Accarezzo la pelle prima che venga tesata sul cerchio di legno. È morbidissima.
– Vuole che le dica cosa uso per conciare le pelli? – aggiunge con un sorriso.
Io scrollo le spalle: i segreti sono segreti. Lui però me lo dice lo stesso e ci mettiamo a ridere. Tutti ci guardano e a loro volta ridono, senza capire. L’allegria è contagiosa e non ha bisogno di ragioni, come la musica. Quando la pelle è ben tesata sul cerchio, si aggiungono le parti in metallo, i campanelli e i fiocchi colorati. Alle pareti della bottega sono appesi alcuni tamburi molto più grandi di quello che Adolfo sta realizzando per noi. Gli chiedo come mai e mi spiega che un tempo erano tutti così.
– Perché?
– Oggi i giovani li vogliono più piccoli e leggeri.
In effetti, dopo una giornata di musica passata a reggere il tamburo, le braccia devono far male come se avessero spaccato legna. Mi domando se un tempo le persone fossero più forti, oppure se avessero più capacità di sopportazione. Adolfo non risponde e sorride nuovamente, mentre ci mostra il tamburo finito. È bellissimo. Ma la cosa più bella è che non è in vendita. Qui a Cogne i tamburi si realizzano solo per passione; gli strumenti sono destinati ai musicisti locali, che li suonano per se stessi e per la comunità. La musica popolare è come un gioco, e il gioco è un rito che scalda i cuori e tiene unite le persone, forma le coppie, rasserena i vecchi, incoraggia i bambini a diventare grandi.

Nel frattempo siamo tornati all’aperto, con i Lou Tintamaro che si dispongono in cerchio e si aggiustano gli abiti. Le donne in nero, con le gonne ampie che coprono le gambe lasciandole però libere di volare. Le camicie bianche, le maniche al gomito e le cuffie in testa, con le code che cadono sulle spalle come lunghe trecce. E poi il sorriso, che fa parte del costume. La musica popolare corale vuole sempre il sorriso, altrimenti non si lascia suonare. Gli uomini portano il cappello con la tesa larga su cui poggiano dei piccoli fiori colorati, i pantaloni scuri e la giacca di lana bianca con i profili verde e rosso. Uno di loro si volta di spalle e all’improvviso emette un fischio acuto e selvaggio, una specie di grido berbero. Fossimo in primavera, con la neve alta sulle creste, ci sarebbe da temere una valanga. Ma non c’è neve e il ghiacciaio sembra sudare sotto il sole d’autunno. Il gruppo inizia a suonare e cantare e ballare. Davanti alla telecamera si svolge il rituale dell’incontro tra le coppie, il gioco di sguardi e movimenti rapidi dei piedi, messi il più vicino possibile che si tocchino il meno possibile.

Mi piacerebbe che Davide provasse quel grido: reinterpretazione musicale del fischio della marmotta. Ma è in un angolo nascosto, che batte il ritmo con il piede e la mano che intinge una fetta di mecoulin nella crema di Cogne. Quando il brano terminerà, per noi sarà tempo di andare. Una nota lunga, accompagnata dal fischio della marmotta, ci accompagnerà verso nuovi paesi e nuovi paesaggi.

Venite a Cogne, nel Parco Nazionale del Gran Paradiso; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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Il chinotto di Finalborgo.

Oggi siamo in Liguria. Il paese è Finalborgo, il paesaggio il Marchesato di Finale. Le coordinate geografiche sono 44°10’ Nord e 8°19’ Est. Mi sveglio presto e metto il caffè sul fuoco. Fuori è ancora buio. Dalla finestra della cucina vedo il faro di Capo Mele. Finale Ligure è ancora più vicinopotrei andarci in bicicletta. È un’idea che dura il tempo della colazione, poi salgo in macchina, imbocco l’autostrada e dopo una manciata di chilometri esco a Feglino.

Bastano un paio di curve per capire come mai i marchesi Del Carretto abbiano scelto di costruire qui le fortificazioni contro i saraceni. La valle è lunga e stretta, gli alvei dell’Aquila e del Prora abbracciano il borgo e formano dei fossati naturali ai piedi delle mura. I boschi sono fittissimi, attraversati da sentieri invisibili: il paradiso di chi corre nella natura e di chi in bicicletta vuole allontanarsi dall’asfalto. A mezza costa, i resti diroccati di Castel Govone sono ancora imponenti. Sbucano chiari e luminosi dallo scuro del bosco. Poco sopra sono le palestre di roccia a farsi largo tra la vegetazione. Ci sono uomini e donne che vengono da tutto il mondo per scalarle, le mani bianche di magnesite e le scarpette due numeri più piccoli per aderire alla roccia. Dal basso li vedi salire come ragni, oppure precipitare nel vuoto appesi a una corda e un moschettone. Altre volte restano immobili a metà strada, né su né giù, con la ghisa nelle braccia. Finalborgo è unica anche per questo. Dentro le mura è uno dei borghi più belli d’Italiama fuori è un misto di selva e mare e roccia. Solo Finalborgo unisce alla storia delle pietre il fascino dei volti. Qui è tutto un via vai di giovani che si ritrovano per fare sport, con le frontali accese di notte e la maglietta anche d’inverno. Il microclima di questa valle è meravigliosamente temperato, ed è alla base della storia di agricoltura che siamo venuti a raccontare.

Davide è già lì che aspetta, davanti alle mura, subito dopo il ponte. Il torrente Aquila scorre asciutto verso il mare. Le campagne di Giacomo – il protagonista della puntata – sono poco più in là. Agrumeti ritagliati ai piedi del bosco: piccoli giardini mediterranei dove sono tornati a crescere rigogliosi i chinotti di Savona. Davide non era mai stato qui. Rimane affascinato dall’atmosfera, misto di luoghi e di persone. Sedia in spalla attraversa il chiostro di Santa Caterina, sfila davanti al palazzo del Tribunale, poi s’infila nei carruggi tra le botteghe e le case antiche. Sui muri sono appoggiate le mountain bike, una sopra l’altra a gruppi di tre o quattro. Non ci sono lucchetti, tanto qui non ruba nessuno. Creature meccaniche vagamente mostruose, con telai in carbonio e gomme artigliate, rinforzi sui manubri che sembrano palchi di cervi.

Davide le guarda ammirato. Poi però dice: «Mia mamma partiva da Bassano del Grappa e andava in bici sui passi delle Alpi Bellunesi con qualunque tempo. Un rapporto solo, freni a bacchetta e ruote lisce». Chissà come si divertirebbe adesso la madre di Davide, qui nel finalese, a pedalare su e giù dalle rocce, saltando sulle radici smosse dai cinghiali.
Intanto Giacomo ci accompagna nella fortezza di Castel San Giovanni, dove pensiamo di girare alcune scene. La strada lastricata per raggiungere il castello parte dal centro abitato e sale per qualche tornante. Massimo – il nostro regista – è affaticato. Per stimolare la respirazione accende una sigaretta. Intanto si è alzata una leggera brezza e il sole è apparso tra le nuvole. Dalle feritoie della fortezza la vista è impagabile, con i raggi di luce che bagnano la valle, si riflettono sulle rocce e si immergono nella vegetazione. Fotosintesi clorofilliana, fabbrica di ossigeno.

Anche Massimo torna a respirare, mentre dall’alto inquadra la valle e i campi di chinotto.
– Sembrano mostriciattoli verdi, – mi dice Giacomo mostrandomi una pianta carica di frutti pronti per essere raccolti. Quando pensiamo a un chinotto maturo lo immaginiamo grosso, morbido e dorato. I chinotti invece si raccolgono piccoli e duriverdi come fossero acerbi. In realtà sono sempre acerbi: impossibili da mangiare crudi. Davide ne assaggia uno e giura che non è vero.
– Sono buonissimi – esclama, mentre fotografo la sua smorfia.

La storia narra che nel Cinquecento qualche anonimo viaggiatore abbia portato dalla Cina questi strani frutti. Il nome chinotto deriva propria da China, ovvero Cina. Chissà per quanto tempo l’uomo primitivo, frugivoro e raccoglitore, ha provato a mangiare i chinotti. Poi qualche genio – laggiù in Oriente – deve aver pensato a cuocerli, qualcun altro a spremerli, dolcificarli, addirittura candirli. Giacomo mi racconta che l’entroterra ligure di Savona e Finale era pieno di chinotti. C’erano le piante e c’era la bevanda, che non piaceva a tutti ma aveva grandi estimatori nei bar di paese. Un gusto adulto un po’ difficile, come il trinciato da fumare senza filtro e il caffè da bere senza zucchero.

Ma la vera fortuna del chinotto è stata la guerra allo scorbuto. Cito a memoria un passaggio di un libro di Bill Bryson, dove l’autore ricorda che tra il Cinquecento e la metà dell’Ottocento sono morti di scorbuto oltre due milioni di marinai: ogni nave, durante una lunga traversata, perdeva circa metà dell’equipaggio. Sempre Bryson annota le cifre di una spedizione navale britannica alla metà del Settecento: dopo tre anni di viaggi e di battaglie, l’equipaggio di duemila uomini aveva perso millequattrocento unità. Di queste, solo quattro uccise dal nemico: il resto dallo scorbuto.

All’inizio del Novecento, anche il nonno di Giacomo vendeva i suoi chinotti in banchina al porto di Savona. Ma un conto è la medicina, un altro la delizia per il palato. Proprio qui nel Ponente ligure tra Savona e Genova, i maestri francesi avevano portato nel XIX secolo l’arte della canditura. Nei nostri frutteti avevano trovato il clima ideale e la qualità di frutta che cercavano. Famiglie come i Besio di Savona e i Romanengo di Genova hanno acquisito le ricette e le conoscenze per fare dei chinotti canditi delle vere eccellenze, cibi preziosi da gustare nelle grandi occasioni. Ma attenzione, solo i veri chinotti di Savona possono essere canditi. Sono profumatissimi, hanno la buccia sottile e sono privi di semi. Piante basse – poco più che arbusti – che temono il vento e il freddo. Sono state fonte di ricchezza fino all’inizio del secolo scorso, quando le gelate degli anni venti e cinquanta hanno distrutto le coltivazioni.

Oggi, Giacomo e pochi altri agricoltori locali hanno deciso di riunirsi per riportare in vita il chinotto di Savona. Hanno fatto la conta delle piante rimaste e stanno lavorando con passione alla rinascita del prodotto simbolo di questa zona. C’è da riscoprire l’arte della canditura e tutta una filiera da rimettere in piedi, dalla coltivazione alla trasformazione. Giacomo lavora con i figli nei campi, mentre le donne di casa – la moglie e la nuora – lavorano in cucina e ripropongono in chiave moderna le antiche ricette di famiglia, fatte di cotture lunghe e prolungate, pochissimo zucchero, niente conservanti, né coloranti né additivi. Oltre al succo puro e al nettare di chinotto, producono anche i canditi al maraschino e marmellate da gustare non solo sul pane ma con il gelato, la ricotta e formaggi ben stagionati.

Mentre Davide e Giacomo inseguono con il palato i piaceri del chinotto, suonano le campane della basilica di San Biagio. È tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Massimo, il regista, accende la telecamera e grida: «Azione!». Davide chiude la sedia e si allontana verso il mare, camminando lungo la bialera d’acqua sorgiva che irriga il campo. Passa accanto a un melo innestato su un pero. Allunga una mano e coglie un frutto. Succoso, dolcissimo.

Venite a Finalborgo, nelle terre del Marchesato; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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Un giorno sull’Altipiano.

Oggi siamo in Veneto. Il paese è Asiago, il paesaggio l’Altopiano dei Sette Comuni. Le coordinate geografiche sono 45°52’ Nord e 11°30’ Est.

L’appuntamento è con Davide nel tardo pomeriggio, alle porte di Milano, di fronte agli studi di Cologno Monzese. Un non luogo caro a entrambi: paesaggio urbano desolato, eppure capace di racchiudere esperienze indelebili. Davide viene direttamente dalla Cina; mi aspetto di trovarlo stanco, invece è solo affamato. Ci attendono tutti su ad Asiago, ma dobbiamo sbrigarci, perché la cucina chiude alle dieci.

Asiago sarà solo un punto di passaggio, il campo base dove passare la notte prima di salire in malga, a conoscere Vimer – il protagonista della puntata – e assaggiare i suoi strepitosi formaggi di montagna. Arriviamo tardi, quando la cucina è già chiusa. Per fortuna, i formaggi di Vimer e di suo padre Toni non hanno bisogno di cuochi. Una fetta di Asiago mezzano, una punta di stravecchio e un tocco di pancetta, poi un frutto e andiamo a dormire felici.

L’aria di montagna fa bene allo spiritomette appetito di vivere. Così, prima di spegnere la luce, rileggo qualche pagina del libro che ho portato con me. Ero ancora un bambino, quando con le dita sfioravo per la prima volta la copertina lucida di Un anno sull’Altipiano. Quel libro era sempre sul comodino di mio padre, anche lui sardo, come Emilio Lussu. Non sapevo niente della Prima guerra mondiale, non avevo idea di cosa fosse l’Altopiano di Asiago. Quelle pagine sono state per me come dei colpi di pennello. Hanno dipinto l’idea della montagna, l’animo profondo di esseri umani capaci di vivere nonostante tutto. Hanno steso, come una campitura ampia, la luce di un sentimento di gioia che ci appartiene e che riusciamo a provare anche nella disperazione. In montagna, quella luce mi sembra più intensa che altrove. Sarà per il bianco della neve che fa da sfondo, o per il freddo che entra nelle ossa e uccide i cattivi pensieri, oppure ancora per le curve esatte dei sentieri che riportano a casa. Un linguaggio universale, che lega gli esseri umani alla loro madre terra.

Al mattino, saliamo rapidamente in macchina fino alla malga. Ma che montagna è questa, dove i sentieri sono strade? L’Altopiano di Asiago è una specie di pianura sospesa a duemila metri di altezza, attraversata da una formidabile rete di sentieri costruiti sotto i colpi del nemico. Sono ciò che di buono ha lasciato in eredità la guerra. La storia che siamo venuti a raccontare sull’Altopiano di Asiago ha molto a che fare con le memorie di Emilio Lussu. Fare il formaggio in malga è una battaglia quotidiana, una lotta da combattere con calma e umiltà. Bisogna stare lì (finché ce n’è), con pazienza e intelligenza, e fare ciò che è giusto fare.

Oggi si parla dell’assurdità di leggi che potrebbero obbligare a usare il latte in polvere, come un tempo ordini senza senso mandavano a morire uomini strappati alle famiglie e alla terra. Lussu parlava del loro eroismo muto e paziente. Ritrovo quella stessa tenacia negli occhi di Vimer e di suo padre Toni, il più anziano malgaro dell’Altopiano. Mi mostra una forma di Asiago molto scura. La tiene tra le braccia come fosse una persona. Mi racconta di averla regalata tanti anni fa ai suoi figli, raccomandandosi di tagliarla solo quando lui non ci sarebbe stato più. Poi ride e la rimette a posto sulla scalera, ancora intatta e solida.

Per una questione di rispetto, raggiungiamo a piedi il punto dove abbiamo deciso di mettere la sedia di Davide. Siamo sul confine tra il Veneto e il Trentino, su una rocca che da un lato si affaccia alla piana di Porta Manazzo, dall’altro sprofonda nella Valle di Sella, con il Brenta che scorre in fondo alla gola, nascosto dalla vegetazione. Davide soffre di vertigini. Gli suggerisco di guardare solo da un lato. Mentre lui interpreta il testo e Massimo filma il paesaggio, con le Pezzate rosse, le Bruno alpine e le Burline al pascolo che si disputano la poca acqua delle pozze, io scendo lungo il dirupo e noto l’apertura di una caverna. Entro, spinto dalla curiosità. È buia e procede in orizzontale nella montagna. Cammino piano, verso la luce che proviene dal fondo e mi attrae. Dopo una cinquantina di metri sbuco dall’altra parte, di nuovo verso i pascoli ondulati della malga. Era una galleria, scavata chissà in quali condizioni, per combattere chissà quale frammento di battaglia della grande guerra. Lasciamo i brividi della prima linea e torniamo in malga, perché nel frattempo Toni e Vimer sono pronti con la cagliata.

La casera è una stanza con un grande camino su un lato, una finestra e un tavolo da lavoro accanto. Poi un’altra finestra, opposta alla prima, e un paio di porte per entrare e uscire. Tutto doppio, per far girare meglio l’aria e le persone. In montagna niente è casuale, soprattutto nella bottega di un artigiano. Il fuoco arde nel camino. Toni entra e impugna un lungo mestolo. Glielo porge il figlio che si posiziona accanto a lui.

Non dicono niente, però si vede benissimo che stanno parlando. Sono qui, ma al tempo stesso altrove, in un mondo tutto loro fatto di gesti e di lavoro per la trasformazione del latte. Toni taglia la massa bianca e la gira con il mestolo fino a ridurla a un insieme di piccoli chicchi. Il paiolo viene allontanato dal fuoco e poi riavvicinato, allontanato e riavvicinato. Padre e figlio si muovono con leggerezza, gli strumenti come estensioni degli arti. Mi perdo nei dettagli della loro relazione tra silenzi e sguardi, piccole attenzioni reciproche.

Fare il formaggio in malga non è come lavorare in un caseificio. Qui non ci sono strumenti di precisione, si fa tutto a mano e a occhio, seguendo l’esperienza e l’istinto. Ogni gesto si ripete sempre uguale e ogni volta diverso, perché il latte crudo è un alimento vivo e le giornate non sono mai le stesse. Ogni pascolo ha le sue erbe e in ogni forma di Asiago di montagna si ritrovano i profumi e le emozioni di questi luoghi. È un mondo che rischiamo di perdere, una delle tante facce dell’Italia della qualità. Un paese spesso nascosto, da conoscere e difendere.

Oggi è giornata di festa in malga. Gli escursionisti le visitano spostandosi da una all’altra: una specie di transumanza interna. Accanto a noi, in cucina, si sfornano piatti di polenta e si tagliano forme di Asiago mezzano e stravecchio. La gente è incuriosita dalla nostra presenza, ma nessuno entra nella stanza dove si lavora il latte. Tutti sbirciano da fuori il piccolo mondo di Toni e Vimer. La confusione distrae, anche quando non disturba. Per farci sapere che non li abbiamo disturbati, ci chiedono di restare lì a mangiare. Mettiamo un tavolo e qualche sedia accanto al paiolo di rame, con il fuoco che ancora arde e le ultime forme di Asiago di montagna che riposano nelle fascere. Prima che arrivi la polenta mi alzo ed esco. Cerco di farlo in maniera discreta, senza dare nell’occhio. Questa giornata sull’Altopiano sta per concludersi e voglio camminare ancora un po’ sui suoi sentieri: accarezzare con i passi la terra della memoria. Nel frattempo è scesa la nebbia e si è alzato il vento. Cammino tra il dirupo e la piana. Fa fresco, forse l’inizio dell’autunno. Così, senza smettere di camminare, infilo una mano nella tasca della giacca e con le dita sfioro la copertina lucida del libro.

Venite sull’Altopiano di Asiago; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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