Archive for giugno, 2015

Le camicie di Ginosa.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Ginosa, il paesaggio quello delle Gravine. Le coordinate geografiche sono 40°34’ Nord e 16°45’ Est.

Partiamo nel tardo pomeriggio da Roseto Capo Spulico e percorriamo la statale SS106, la grande arteria litoranea che ci riporta verso Taranto. Anche ieri eravamo qui, però sull’altro lato della strada: da una parte c’era l’interno, nascosto nella notte, dall’altra il mare, squarciato dai lampi. Tutto molto bello e suggestivo. Oggi, in piena luce, la scena è ribaltata e il paesaggio che si distende attorno alla costa sembra espandersi, come per sfuggire alla vista e svanire oltre la linea di un orizzonte piatto e circolare.

Guido piano, dietro l’auto di Massimo, il nostro regista. Squilla il telefono. È Davide, al volante della macchina alla mie spalle. Lo inquadro nello specchietto retrovisore mentre mi parla.
– Hai visto?
– Sto vedendo.
– Questo fa l’uomo quando non ha cuore per i suoi luoghi.
– Non c’è rispetto.
– Manca il cuore.
Mette giù. La voce bassa per il raffreddore, il tono dimesso per la sottile amarezza. Continuiamo a guidare in fila indiana, scorrendo abitazioni, alberghi e capannoni: una distesa illogica di costruzioni che sembrano pugni nel ventre di un paesaggio immobile che tace, incassa e resta all’angolo, ripiegato su se stesso senza reagire. Quando lo farà, sarà alla sua maniera, violenta e inappellabile. Funziona sempre così, fin dall’antichità.

Poi, a un tratto, tutto cambia. Il territorio inizia a muoversi scosso dalle prime colline; a poco a poco sparisce il rumore del cemento e inizia la musica dell’ambiente. La mano dell’uomo è sempre presente, ma adesso organizza, crea e accompagna invece di distruggere. Una musica, appunto. Tutto diventa nitido e preciso, abbellito dalla luce radente del tramonto che scivola giù dai rilievi e accarezza i terreni. Massimo si ferma di colpo a lato della via. Vuole filmare un passaggio di Davide con la sedia mentre attraversa un campo di carciofi. Non utilizzerà mai questa scena, ma è bella e deve essere registrata.

Quando infine arriviamo a Ginosa e camminiamo sull’orlo della gravina è di nuovo buio. Così, scegliamo un posto dove mangiare e conserviamo per l’indomani la sorpresa del luogo. A prima vista Ginosa potrebbe assomigliare a Matera, invece è diversa, più lieve e selvatica. La gravina è anche qui una spaccatura nella montagna che circonda l’abitato e lo protegge come il fossato di un castello medievale. Però è meno profonda ed è sempre stata abitata. Dal fondo della gola fino al cielo è tutto un susseguirsi di case e grotte scavate nella roccia, orti strappati alla montagna, capre al pascolo e cespugli di piante spontanee. In fondo alla scarpata il fiume, secco d’estate e gonfio d’inverno. In alto, sull’altipiano, campi di cereali, frutteti, olivi e vigne. Il centro storico di Ginosa, visto da lontano, è di un bianco abbagliante. Ti avvicini e scopri che è in gran parte chiuso, con abitazioni abbandonate e strade sbarrate dopo l’alluvione. Davide avanza con la sedia in spalla percorrendo una ripida discesa. Il luogo è affascinante, sembra un campo che attende di essere coltivato: case e grotte che si compenetrano, vicoli erti annodati attorno alla Chiesa Madre, paesaggi sospesi che si aprono all’improvviso sulla gravina. Un mondo tutto da scoprire, restaurare e valorizzare, l’ennesimo patrimonio italiano dell’umanità. Mettiamo la sedia di Davide su un piccolo terrapieno che si affaccia sul versante nord della gravina. Il borgo alle nostre spalle sembra un presepe, la raffigurazione possibile di un sogno di armonia e equilibrio.

Angelo, il protagonista della puntata, è il sarto di Ginosa. Non potrebbe esserci persona migliore di lui per raccontare questo sogno. I vecchi sarti, per prendere le misure abbracciavano le persone. Anche Angelo fa così con la sua terra e riesce a cucirla nelle sue camicie. Passione, amore e alcune scelte radicali sono alla base della sua vita. La nonna cuciva a mano, e così il padre all’inizio dell’attività. Poi, sul finire del secolo scorso, arrivarono le macchine e l’illusione dei grandi numeri. Angelo, per fare un passo avanti e andare nel futuro, fece un passo indietro e guardò al passato. Ricominciò a fare tutto a mano, liberando la fantasia e concentrando il lavoro sulla punta delle dita, sfiorando i tessuti e maneggiando scaglie di gesso, forbici, ago e filo. Scoprì che ogni punto era il brano di un racconto; ogni passaggio del filo nel tessuto cuciva una storia, rammendava l’identità del luogo.

Angelo produce soprattutto camicie, con venticinque passaggi a mano e trenta ore di lavoroper ciascuna. Le indossano grandi attori, principi e primi ministri di tutto il mondo, ma anche tanta gente comune, persone che cercano se stesse indossando Ginosa e la sua gravina. Angelo potrebbe fare il sarto ovunque, nelle capitali della moda in Europa, America e Oriente; invece rimane qui, a restaurare un edificio del centro storico dove trasferirà la sartoria. Sta appunto rammendando il territorio, dando vita a un progetto che chiama di turismo sartoriale; in sintesi, chiede ai clienti di venire qui a scegliere i propri capi, perché sia Ginosa a prendere le loro misure. Una camicia può essere un pezzo di stoffa sulla pelle, oppure una voce, il canto di un luogo che svela se stesso. Un modello di qualità, come i quadri del Rinascimento, dove niente veniva dipinto per caso e ogni dettaglio aveva un significato. Angelo sta facendo con l’abbigliamento ciò che è stato fatto con il cibo: localizzazione delle materie prime, lavorazioni manuali e recupero delle tradizioni. Come dicevamo, al classico capannone ha sostituito il recupero minuzioso di un edificio del centro storico, al posto delle linee industriali ha messo vecchie macchine per cucire che accompagnano il lavoro delle mani e della mente. Non insegue il miraggio del fatturato ma ricerca la solidità di un’azienda etica. Sta costruendo un atelier dove sia bello vivere e lavorare: un luogo da indossare come un abito su misura.

Lavorando con un profumiere ha realizzato un’essenza particolare a base di mentagelsomino e fiore di cappero: piante selvatiche della gravina con cui profuma tutti i suoi capi. La lana delle sue giacche, realizzate come reinterpretazione di quelle da lavoro in campagna, proviene da pecore locali, mentre il cotone e la canapa sono di piccole piantagioni delle Murge. Questa è l’arte del rammendo, la capacità di compiere piccoli gesti significativi, costituendo una rete di eccellenze locali che dialoghino tra loro e si valorizzino a vicenda, per andare oltre i limiti dei propri confini. Esportare il prodotto tradizionale e farlo apprezzare nel mondo è lo scopo di quest’impresa audace, fatta di slancio e coraggio da un lato, dedizione e tenacia dall’altro: una specie di missione, non imposta da alcuno, tranne che da se stessi. Anche questa – come dice Davide – è l’Italia della qualità, l’Italia che vogliamo.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite a Ginosa e nella sua gravina; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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Rosario e le rose di Rosetum.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Roseto Capo Spulico, il paesaggio l’alto Ionio cosentino. Le coordinate geografiche sono 39°59’ Nord e 16°36’ Est.

Atterriamo a Bari e attraversiamo nella notte la distesa di cereali che circonda Altamura, poi la gravina scoscesa di Matera e i valloni morbidi e pietrosi di Ginosa. Dopo Taranto, costeggiamo lo Ionio in direzione di Reggio Calabria. Davide è rimasto a Milano, bloccato dall’acquazzone che ha messo in ginocchio gli aeroporti del nord. Anche qui al sud il tempo non è bello. Il cielo è gonfio di nuvole e i lampi accendono sul mare improvvisi squarci di luce.

Questa è l’ultima trasferta della stagione di Paesi, paesaggi. La settimana scorsa eravamo in Valle d’Aosta, oggi siamo in Calabria. Sembra un finale fatto apposta per racchiudere il senso del viaggio; un continuo spostarsi senza meta definitiva, attratti solo dalla ricerca della qualità e della bellezza: il valore delle persone, l’armonia dei luoghi, l’intensità del lavoro.

Pochi centimetri separano la testa e il cuore della gente: una distanza per molti infinita. I protagonisti di Paesi, paesaggihanno invece la testa compenetrata nel cuore: sono ostinati e tenaci, capaci di volare alto tenendo i piedi ben saldi a terra. Spesso depositari di saperi antichi, hanno la capacità di rendere attuali le cose del passato. Li guardi e non li vedi, mimetizzati nei loro ambienti: artigiani, agricoltori, allevatori e pescatori che diventano alberi, grano, reti e pascoli. Addirittura rose.

La storia che vogliamo raccontare qui a Roseto Capo Spulico parla proprio di rose e di una coltivazione che dalla Magna Grecia si è tramandata come un culto fino a tutto il Medio Evo. Gli antichi amavano le rose e le consideravano simboli di perfezione. Colori, profumi e proprietà benefiche: doni divini che qui a Roseto si sono perduti tra le pieghe di una modernità frettolosa, distante dagli esseri umani e dal loro bisogno di equilibrio.

Rosario, il protagonista della puntata, ha scoperto quasi per caso l’esistenza di Roseto Capo Spulico, del suo castello federiciano e delle rose amate dalle principesse di Sibari. Mi viene incontro sul ciglio della strada. Lo illumino con i fari mentre solleva il braccio per farmi segno di accostare. Vedo che ha tagliato i capelli, il ciuffo biondo e i baffi sottili di quando faceva l’assistente di volo e passeggiava tra le nuvole, in bilico sulle latitudini del mondo. Ogni giorno un paese diverso, incontri rapidi e pasti mal digeriti. Molto movimento e nessuna direzione, piuttosto un senso di crescente insoddisfazione. Quando ha saputo di Roseto Capo Spulico si è licenziato ed è venuto a vivere qui, all’ombra del castello di Federico II di Svevia, per ridare vita alle rose degli Achei che nessuno coltivava più. Ha smesso di volare e ha finalmente staccato la propria ombra da terra.

Iniziamo le riprese nel castello, costruito come il prolungamento naturale della roccia che affiora dal mare. Federico II ne era rimasto affascinato e l’aveva requisito ai cavalieri Templari dopo la VI crociata. In origine era stato un edificio religioso, probabilmente un monastero, poi i Normanni lo avevano trasformato nel castrum Petrae Roseti. Ciò che vediamo oggi, al termine di un lungo intervento di restauro, è un frammento intatto di cultura medievale, un monumento che dopo aver viaggiato nel tempo restituisce l’antica ossessione del simbolo e della ricerca della verità. Il castello è ancora oggi ricchissimo di segni. Alcuni molto evidenti, come la rosa scolpita sul portale d’ingresso; altri meno leggibili, come il sigillo di Salomone nascosto tra le pietre di un pavimento del secondo piano; ma il fascino di questo luogo è nella sua tensione mistica, nel richiamo di ciò che i sensi percepiscono e la mente non riesce a spiegare.

Lasciamo il castello e ci dirigiamo verso il terreno di Rosario: sei ettari di rose e sogni che sovrastano la costa ionica. Il campo è ben dissodato e il roseto accuratamente delimitato. Il progetto, che si chiama Rosetum, sta prendendo corpo e noi lo stiamo filmando. Le prime rose sono già a dimora e nei prossimi mesi si susseguiranno le fioriture. Poi la raccolta dei petali e le lavorazioni in un laboratorio che sorgerà assieme all’abitazione sui resti di un’antica casa colonica. Rosario ci mostra una vasca in pietra immersa nella macchia mediterranea.
– Un abbeveratoio? – chiedo.
– Una vasca di purificazione dei Templari.
– Ah.

Sullo sfondo il mare è mosso, il cielo in fermento. Un’instabilità meteorologica che aggiunge fascino al luogo e ci regala una buona luce per le riprese.
– Ecco – dice Rosario – in questo punto preciso la bussola impazzisce. Perde il nord magnetico e indica una direzione verso sud est.
– Ci sarà del ferro nel terreno.
– Se tracci una retta con questa inclinazione, traguardi il castello di Federico II e arrivi a Gerusalemme.
– Ah
Rosario si allontana. Io resto ancora un po’ a guardare il mare, oltre la vasca in pietra immersa nel bosco. Seguo una linea immaginaria che oltrepassa il castello e prosegue verso sud, dove nascono le onde.
Massimo – il nostro regista – mi chiama e lo raggiungo presso i ruderi della casa colonica. Per dare concretezza al sogno di Rosario, posizioniamo un vetro davanti alla telecamera e chiediamo a Paolo – l’architetto che sta curando il progetto di Rosetum – di disegnare le future linee dell’edificio. Nel monitor vediamo la sua mano e il pennarello che ondeggiano nell’aria e prolungano le fughe di pietre cadenti e muri pericolanti: tratti che si organizzano in un insieme omogeneo, prendono forma e diventano progetto.

Rosetum non sarà solo un’impresa di agricoltura biodinamica, ma anche uno spazio didattico e ricreativo, un luogo aperto al pubblico e alle scuole, con percorsi naturalistici accessibili anche ai disabili. L’idea è che i profumi e i colori di Roseto Capo Spulico tornino a essere quelli delle sue rose. Infine allestiamo un set all’aperto dove simuliamo le lavorazioni dei fiori. Processi di trasformazione lunghi e laboriosi che noi accenniamo soltanto, impiegando strumenti antichi come una pentola di rame per l’infusione dei petali, un imbuto per l’olio essenziale, un mortaio, un setaccio, teli di garza e flaconi di vetro. È davvero infinita la varietà di prodotti che si possono ottenere dalla lavorazione delle rose: creme, profumi, unguenti, saponi, tinture e oli tutti nati da processi che Rosario dovrà approfondire alla scuola dei maestri. Ciò che sta iniziando a fare adesso, probabilmente farà per tutta la vita. Studierà, ascolterà, domanderà e proverà; ciò che gli auguriamo, è di non smettere mai di imparare.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venite in Calabria, a Roseto Capo Spulico; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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