Archive for maggio, 2015

Il signore dei boschi.

Oggi siamo in Valle d’Aosta. Il paese è Donnas, il paesaggio quello della bassa valle. Le coordinate geografiche sono 45°36’ Nord e 7°46’ Est.

Posizioniamo la telecamera sul prato a lato della strada che costeggia la Dora Baltea. Il fiume scorre energico verso sud, noi invece guardiamo a nord. L’obiettivo mette a fuoco l’arco della via romana delle Gallie, uno dei punti più caratteristici di Donnas.

Davide compare con la sedia in spalla e avanza verso di noi con il passo deciso del camminatore incallito. La grande via consolare che collegava Roma ad Aosta è scavata nella roccia viva; il selciato levigato dal tempo, dall’acqua e dal vento, modellato dal passaggio continuo di piedi, zoccoli e carri. Inciampare e cadere non sembra difficile. Davide però si mostra sicuro di sé e saltella agile verso il paese che inizia subito dopo la cappella di Sant’Orso. L’edificio di culto, costruito probabilmente dopo l’alluvione del 1176 per ingraziarsi la protezione divina contro le frequenti inondazioni del fiume, fu eretto nel punto dove la Dora bagna i muri delle prime abitazioni. Le case del borgo sono disposte ai lati della via e si susseguono fino al termine del paese, divise a coppie come in una quadriglia: dame e cavalieri che si osservano tenendosi a distanza.

L’origine medievale degli edifici è ben riconoscibile nei fregi sbalzati sulla pietra e nelle finestre a forma di scudo sannitico rovesciato. Seguiamo Davide catturati dai molti scorci suggestivi: angoli bui che improvvisamente si aprono alla luce del fiume, scale ripide e portali in legno con le teste dei chiodi che disegnano geometrici intarsi. Qui in Valle d’Aosta la pronuncia dei nomi è sempre un po’ difficile; per non fare brutte figure occorre abbandonare i ricordi di scuola e accostarsi con umiltà e curiosità a questa lingua di frontiera, misto di patois, francese e italico. Il nome Donnas, ad esempio, vuole la s alla fine mentre l’accento oscilla tra la seconda e la penultima lettera, a seconda dei momenti, delle persone e dei luoghi. Con ogni probabilità il termine deriva dal toponimo di un fondo rurale, noi però ci lasciamo conquistare dall’ipotesi che nasca da donnasc, il nome della castagna locale.

Oggi, siamo venuti qui a Donnas proprio per rendere omaggio al castagnoil signore dei boschi. La telecamera inquadra il grosso tronco di un vecchio castagno e Davide compare con in mano un riccio. Si appoggia alla corteccia rugosa e con molto rispetto spiega che il castagno è un albero generoso, che ha tenuto in vita generazioni di comunità montane. Il bosco dove abbiamo deciso di effettuare le riprese si trova a picco sopra il forte di Bard, poco distante dal punto dove nei mesi scorsi hanno girato il volo di Iron Man nel secondo film della saga The Avengers. Anche questa è la moderna Valle d’Aosta, una regione capace di fare da sfondo agli eroi della Marvel e ospitare le troupe della Disney, conservando però vivo il ricordo di legionari romani, cavalieri medievali e truppe napoleoniche.

Mi allontano dal castagno di Davide e mi avvicino allo strapiombo. Il punto preciso è segnato da una piccola stele di pietra. Il forte di Bard è un puntino laggiù, perso nella conca dove la Dora accoglie l’Ayasse. Risalgo il fiume con lo sguardo, lungo la valle di Champorcher, poi torno sui miei passi, facendo attenzione a calpestare la stessa erba dell’andata per non rovinare il prato. Quando rientro nel bosco, mi avvicino a Ezio, il protagonista della puntata. Mi racconta che del castagno si usava tutto: con la legna si facevano porte e infissi per le casedoghe per le botti e pali di sostegno per le viti, le foglie diventavano lettiere per gli animali, i frutti si raccoglievano e si mangiavano subito bolliti, oppure si mettevano a seccare e si macinavano per farne farina con cui preparare pane e dolci e biscotti. Un’intera filiera di produzione ha legato per secoli le comunità di montagna al castagno.

Ezio e suo fratello Silvio producono eccellenti prodotti da forno della tradizione valdostana – molti dei quali proprio a base di castagne – da quando hanno ereditato dai genitori un campo da coltivare e un forno in pietra. Non avevano una tradizione di famiglia da proseguire, ma una cultura diffusa nella valle da raccogliere e portare oltre i confini della propria terra. Hanno iniziato coltivando a rotazione il loro campo con segale, mais e frumento, poi hanno aggiunto l’uva, le castagne e hanno recuperato tante ricette semplici e genuine da sperimentare nel forno in pietra. Il campo di cereali oggi è rigoglioso. Mentre la voce di Davide racconta gli inizi dell’attività, Ezio si fa largo tra le spighe alte quasi quanto lui. Sono tinteggiate di un bel verde reso brillante dalla luce di taglio del mattino e dalle piogge dei giorni scorsi. Nel frattempo si è alzato il vento e le spighe ondeggiano come onde nel mare. A lato della strada in terra battuta c’è un muretto che trattiene un cumulo di pietre. Saliamo sui massi e dall’alto inquadriamo il campo di Ezio e della sua famiglia: sembra veramente un mare verde smeraldo, e lui un naufrago che accarezza le onde.
Sorride; evidentemente gli è dolce naufragare in questo mare…

Oggi Ezio e Silvio producono le loro specialità in un moderno laboratorio artigianale, dotato di un efficiente forno elettrico, ma per la televisione torniamo alle origini e ci dirigiamo verso un piccolo gruppo di case addossate al bosco, dove il vecchio forno di famiglia resiste tra tetti in pietra sconnessi e pareti strattonate dai tronchi di fico e dall’edera. Non c’è acqua corrente e anche l’elettrica è scarsa. L’interno è in penombra e non possiamo illuminarlo. Meglio così, le immagini saranno più calde e intime, con le braci del forno in primo piano. Silvio impasta i biscotti fatti con burro locale, un po’ di zucchero, uova di casa e farina di castagne. Poi prepara un tipico pane integrale della bassa valle, con noci, castagne e uvette. Un pane capace di rimanere fragrante per oltre due settimane, ma che un tempo si faceva seccare ed era buono tutto l’anno.

Silvio ha acceso il forno all’alba, molto prima del nostro arrivo, per portarlo in temperatura. Prima di infornare rimuove le braci, in modo da cuocere il pane e i biscotti a lungo, quasi a vapore, mentre la temperatura gradualmente si abbassa. Silvio lavora, Massimo – il nostro regista – lo filma e noi restiamo fuori, distesi al sole, a chiacchierare sul prato e mangiucchiare castagne e uvette. Intanto, dalla finestrella del forno esce un profumo di pane che le narici catturano e mandano subito in circolo; una lieve gioia interiore si diffonde e raggiunge zone profonde del corpo e della mente. Alle volte, basta davvero poco per avere tutto.

Al termine della cottura, quando il pane e i biscotti sono pronti, posizioniamo la telecamera in modo da riprendere il cielo di sfondo e il bosco più in basso, poi le case, il prato al centro e il forno di lato.
– Tutti fuori, siete in campo! – ordina Massimo.
Poi esclama: «Azione!» e dalla casetta con il forno escono Silvio, Ezio, la moglie Monica, i figli Didier ed Emil. Reggono grandi vassoi con le specialità di giornata, ancora calde e fragranti. Vien voglia di rubare qualcosa, ma dobbiamo restare immobili e nascosti, schiacciati come lucertole alle pietre dei muri per non entrare in campo. Vediamo Ezio e i suoi famigliari sfilare davanti alla telecamera e uscire dal borgo, sparire nel bosco e incamminarsi verso casa, giù a Donnas. Ci aspetta l’ultima scena: la degustazione. Sul tavolo disponiamo con cura i prodotti, all’interno di piccoli vassoi in legno fatti a mano da Emil. Sapori antichi e genuini: pane, biscotti e tante specialità da forno che seguono i ritmi della natura e racchiudono il gusto della montagna.
– Anche questa è l’Italia della qualità – esclama Davide – l’Italia da difendere.
Il forte di Bard, laggiù, fa buona guardia…

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite in Valle d’Aosta, a Donnas; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Gli occhi della dolcezza.

Oggi siamo in Valle d’Aosta. Il paese è Valpelline, il paesaggio quello dell’omonima valle. Le coordinate geografiche sono 45°49’ Nord e 7°19’ Est.

In realtà oggi abbiamo in programma di visitare molti luoghi diversi, tutti collegati a uno stesso prodotto, simbolo di questa regione. La fontina era documentata già nel Medio Evo e compare in un testo della seconda metà del Duecento, dove il termine indicava un appezzamento di terreno. C’è poi un affresco del XV secolo nel castello di Issogne, dove alcune forme sono raffigurate sul banco di un mercante, tra salumi e granaglie.

Si tratta di un formaggio antico ma dall’origine incerta, con un nome che potrebbe indicare un alpeggio, un paese o una famiglia.
– È bello che rimangano questi dubbi – mi confida Davide in una pausa di lavorazione.
– Un po’ di mistero aggiunge fascino al gusto – dico io a bassa voce.
Lui si aggiusta la giacca, poi esclama:
– Così appartiene a tutta la Valle!
È vero. Qualunque cosa significhino i nomi fontin o fontinazla fontina è un prodotto di queste montagne. Tanti luoghi, persone e animali per realizzare un solo prodotto, sempre diverso eppure uguale a se stesso, alle sue origini più antiche e autentiche.
Per raccontare la storia della fontina valdostana bisogna partire dal latte e dalle vacche. Adesso è ancora presto, ma l’aria tiepida di primavera sta già sciogliendo la neve e tra poco gli animali lasceranno le stalle per salire in alpeggio. Fanno sempre così, ogni anno da giugno a fine settembre.

Roberto è il nostro esperto di fontina, l’uomo che ci guiderà tra pascoli e stalle, centri di stagionatura e luoghi di degustazione. Ci incontriamo alle porte di Aosta, davanti all’officina di un gommista. Potrebbe sembrare un inizio poco poetico, ma non è così: in Valle d’Aosta anche le officine sono circondate da prati che in primavera si ricoprono di fiori. Appena sopra i pneumatici, la vista si perde tra le cime innevate e c’è sempre qualcuno pronto a chiamarle per nome, a una a una. Le vette sono luoghi sacri, lontani e al tempo stesso presenti, punti di riferimento cui aggrapparsi nel corso della vita. Alle volte mettono paura e quando cala la nebbia scompaiono, ma qualunque cosa accada loro sono sempre lì, come anziani genitori, il braccio allungato verso di noi.

Roberto mi indica alcuni prati poco distanti che si fanno largo tra le macchie scure del bosco.
– Le mucche a quest’ora saranno già in marcia – dice mettendo in moto il furgone.
Gli avevo chiesto di accompagnarci in un pascolo di bassa quota.
L’alpeggio estivo sarà un’altra cosa, ma questo prato scosceso subito sopra la città sembra già un buon inizio. Come un fine settimana al mare in riviera prima di partire per le vacanze. L’erba comincia a prendere il posto del fienosi respirano i profumi dei fiori, i cani abbaiano e corrono per tenere unito il branco, le regine danno vita ai primi combattimenti.
Le regine, così si chiamano le vacche tipiche della fontina valdostana, usano il combattimento come forma abituale di attività sociale. S’incornano spesso, ferendosi senza farsi troppo male, per stabilire gli equilibri del gruppo. Ci sono anche i loro muggiti nel latte della fontina; non solo erbe e fiori, ma tonfi sordi di incornate e il dolore delle ferite sui fianchi, l’esuberanza delle giovani manze e la calma delle regine più forti ed esperte.
– Perché fanno così? – chiedo a Roberto.
– Non fanno così, sono fatte così! È la loro natura.
Iniziano a litigare appena uscite dalla stalla, e ogni volta il pastore teme che possano distruggere qualche macchina parcheggiata appoggiandosi alla fiancata o strisciando le corna sulla carrozzeria.

Nella fattoria di Claudio – uno dei vincitori della Gran medaglia d’oro all’ultimo concorso Fontina d’alpage – conosciamo alcune regine bellissime, i loro vitelli e le pezzate rosse, le altre vacche tipiche. Sono tutti animali rustici, adatti ai sentieri di montagna, poco inclini ai mangimi e alle visite del veterinario; bastano a sé stesse e producono un latte eccezionale, vivono quasi vent’anni e mettono al mondo anche quindici vitelli. Davide si appoggia a una delle ultime balle di fieno della stalla e versa il latte appena munto in una ciotola. Lo beve di gusto davanti alla telecamera. Non potrebbe farlo, ma sta combattendo da anni una battaglia personale contro le leggi che gli hanno rubato i sapori dell’infanzia. Bevo anch’io un po’ di quel latte caldo e schiumoso; mi ricorda gli anni sessanta quando andavo in latteria con la bottiglia di vetro. Il latte veniva dalle fattorie del paese ed era in una vasca di marmo; la lattaia immergeva il mestolo e riempiva la bottiglia. Cominciavo già a bere sulla strada di casa. Proust mangiava madeleine, noi bevevamo latte. Oggi, con tenace determinazione, ricerchiamo il nostrotempo perduto.

Lasciamo la fattoria e ci si spostiamo nei prati di Ollomont, dove Davide passeggia con la sedia in spalla in un grande prato. L’erba è punteggiata di fiori che spuntano tra ciuffi di cicoria, ortica e tarassaco. La fioritura in montagna è uno spettacolo da non perdere; non solo da vedere, ma da provare, come un sentimento. C’è qualcosa di immenso in un prato fiorito dopo il disgelo: una cosa talmente grande da riuscire a farsi piccola, rinchiudersi nei dettagli di un prato e poi esplodere in un fiore. Da Ollomont alla grotta di stagionatura la strada è breve. Entriamo in una ex miniera di rame dove sulle scalere di abete rosso riposano oltre sessantamila forme di fontina. Pareti di roccia viva letteralmente tappezzate di formaggio che matura nelle viscere della terra. Anche questo è uno spettacolo da non perdere, imponente e ricco di significati simbolici. È interessante ad esempio notare come la fontina nasca sullamontagna, negli alpeggi e nelle casere d’alta quota, ma poi diventi grande nella montagna, all’interno di grotte come questa, dove l’umidità è costante attorno al 90 per cento e la temperatura stabile sui 10 °C. I rumori del mondo restano fuori: qui le fontine riposano in pace, nel silenzio più assoluto, rotto solo dalle note lievi delle gocce d’acqua che affiorano sulla roccia e cadono a terra. Richiamano il ventre materno: la montagna come madre, al tempo stesso generatrice e custode.

Questa miniera di fontine è in realtà una raffigurazione della Valle d’Aosta. Le forme sono tutte numerate e registrate con i nomi degli alpeggi di provenienza. Vengono dalle montagne di tutta la regione e si ritrovano qui, dopo l’estate, per raccontarsi storie di pascoli, acque, erbe e fiori, combattimenti di regine e acquazzoni improvvisi. Tutti gli anni così: ogni piccola fetta racchiude una grande storia. Ci spiegano che per conoscere la fontina bisogna guardarla negli occhi. Davide ne taglia un pezzo e mostra alla telecamera i buchi perfettamente circolari che affiorano sulla pasta morbida e compatta del formaggio.
– Devono essere tondi – dice prima di assaggiare – sono gli occhi della dolcezza...

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Valle d’Aosta, a Valpelline, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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La cioccolata con il nome degli dèi.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Reggio, il paesaggio: la costa dello Stretto. Le coordinate geografiche sono 38°6’ Nord e 15°38’ Est.
Partiamo da Spìlinga, dove abbiamo appena terminato le riprese di una puntata sulla nduja. In tutta fretta ci mettiamo in marcia verso sud, dove racconteremo la storia di una signora – innamorata della sua terra – che realizza piccole opere d’arte con il cioccolato e i frutti della Calabria. L’arte del cioccolato richiede calma e pazienza, noi invece ci stiamo muovendo freneticamente. L’aereo di Davide partirà nel primo pomeriggio e abbiamo poche ore a disposizione.

Dopo qualche chilometro squilla il telefono: è Davide. Ha dimenticato i documenti in albergo a Tropea e deve tornare a prenderli. Ci fermiamo, discutiamo, cerchiamo di prendere una decisione. Alla fine estraggo dallo zainetto la sceneggiatura, la leggiamo a voce alta, con la matita segniamo la successione delle riprese. Poi la consegno a Massimo, il nostro regista, e osservo i miei amici ripartire. Anch’io risalgo in macchina, ma con tutta calma; movimenti lenti, un accenno di sorriso agli angoli della bocca. Di colpo, il regalo di un improvviso rallentamento: il piccolo contrattempo mi ha offerto l’opportunità di gustare nuovamente questi luoghi.

Avevo già percorso la discesa verso Tropea, ma di notte. Adesso il sole di spalle si stende sul mare: a ogni curva uno scorcio diverso, a poco a poco sempre più ravvicinato, come un lungo piano sequenza verso l’attore protagonista. Questo è il Mediterraneo dei Greci e dei loro dèi, abitatori di spiagge, sorgenti, boschi e fiumi che ancora conservano il ricordo del mito. L’eco di racconti omerici mi accompagna mentre recupero i documenti di Davide e risalgo la china, lasciando questa volta il mare alle spalle e procedendo in controluce verso la cima del monte. Poi la strada spiana e attraversa i campi dell’interno, ordinati e ben coltivati, delimitati con regolarità da muretti a secco. Infine la valle degli agrumi, la distesa degli oliveti e di nuovo il mare. La Sicilia è là a un passo, appoggiata alla linea ravvicinata dell’orizzonte: seguo il litorale dello Stretto e dopo poco entro in città.

Cerco Massimo e Davide e il resto della troupe sul lungomare, ma non vedo nessuno. Al telefono mi segnalano una strada di riferimento, ma il navigatore non la trova e continua a rimandarmi a Tropea. Allora mi fermo e domando a una giovane mamma. La sua risposta è una risata gioiosa.
– Viene da fuori, vero?
– Sì
– Allora non sa che noi reggini non conosciamo le vie della nostra città. Cioè, conosciamo le vie, ma non sappiamo i nomi
– Però il lungomare è questo?
– Certo, da qui a laggiù…
Parcheggio l’auto e cammino, da qui a laggiù. Fa molto caldo, ma la brezza distesa è piacevole. La passeggiata è affollata di giovani coppie, famiglie con i passeggini, bambini che si rincorrono, cani che abbaiano, gelati che sgocciolano. In mezzo a loro c’è Davide, con la sua sedia.

Su questa spiaggia giungono i venti del sud: rocce tirreniche e morbidezze ioniche, profumi d’agrumi maturati al sole del Mediterraneo, il respiro antico di una terra abitata dagli dèi…

I bambini vogliono farsi fotografare con lui. Il tempo di un’ultima battuta, poi chiude la sedia e s’incammina verso la spiaggia e il mare. Quando ha i piedi completamente immersi nell’acqua, Massimo grida «stop!» e siamo pronti per andare nel laboratorio di Cristina, la signora del cioccolatoCristina ha insegnato inglese per tutta la vita. Poi, quasi per caso, ha scoperto il mondo del cioccolato.
– Qui in Calabria abbiamo il culto della pasticceria – mi confida con un sorriso – ma non la cultura del cioccolato.
In questa terra così calda è l’unica vera cioccolatiera, al tempo stesso artigiana e artista. Ma la sua non è una sfida, piuttosto una scelta d’amore. Nel suo piccolo laboratorio realizza specialità uniche; ogni pralina racconta un angolo di Calabria, racchiude un sapore, esprime un’emozione.

Il cioccolato finissimo si unisce alle eccellenze della terra: ne esalta i frutti, le spezie, gli aromi. Il cioccolato è un alimento vivo, che si modifica a seconda dell’umore di chi lo lavora.
– Certe giornate – dice Cristina – sono nervosa e vado di fretta. Allora è meglio smettere. Il cioccolato non si può lavorare senza calma.
Al suono delle sue parole mi accorgo che nel laboratorio è calato un silenzio di rispetto e di attesa. Un altro regalo della giornata: tempo che scorre lento, le voci della città chiuse fuori. I gesti di Cristina sono brevi ed esatti: piccole azioni precise, come una collezione di attimi.

Sul banco, la prima cosa che noto è una livella.
– È per te – dico a Marco il nostro operatore – per mettere in bolla la telecamera.
Non immaginavo che servisse per mettere in bolla il cioccolato. Cristina realizza sotto i nostri occhi delle uova di cioccolato fondente con il guscio intarsiato come un merletto. Un ricamo di cacao che poggia su una base perfettamente piana. Poi, come se non bastasse, realizza altre uova più piccole e di colori diversi, con cioccolato bianco e al latte, che s’inseriscono le une nelle altre come sculture. Ci vuole tempo, esperienza e pazienza per imparare a fare tutto questo. Cristina ha covato la sua passione al fuoco lento della vita. Però, osservandola lavorare, rivedo l’insegnante attenta e scrupolosa che deve essere stata, la donna sensibile e tenace. Riaffiora nell’accuratezza con cui dispone gli oggetti, nell’ortogonalità delle pieghe, nel raggio di curve mai solo abbozzate. La livella è lì, sul banco della cioccolatiera com’era la matita sulla cattedra dell’insegnante. Non ama parlare mentre lavora. Si vede che è una donna in cammino: ogni tocco delle dita un passo lungo la via. A un tratto mi spiega che il cioccolato è un mondo a parte, una sorta di piacere assoluto che coinvolge tutti i sensi. C’è la lucentezza da osservare e la sericità della materia da sfiorare, una compattezza che quando si spezza parla ed emette un suono inconfondibile. Il cioccolato è anche da odorare: miscela di profumiche dalla natura vanno fino alla tostatura. Quando infine si gusta, i sensi sono già sazi.

Ma per Cristina il cioccolato è solo la base, lo strumento di lavoro. È lo scrigno dove conservare i frutti migliori della Calabria. Sul banco dispone le materie prime e alcuni cioccolatini: cremini al bergamotto, praline con gelatina di zagara, scorzette di arancia accarezzate da un velo di cioccolato fondente… Hanno i nomi degli dèi, perché questa era la loro terra e il cioccolato il loro cibo. Efesto ha una goccia di peperoncino, Orfeo la pasta di mandorle e il bergamotto, Dioniso racchiude una gelatina di vino speziata in cioccolato fondente e Ganimede una composta di mele cotogne e zenzero fresco. Un mondo di delizie che improvvisamente diventano ancora più buone.

Sulle pareti del laboratorio, accanto alle vetrine dove sono esposte le confezioni con le opere di cioccolato, vedo alcune immagini di Cristina circondata di bambini. Sorridono tutti, anche se non sono felici. Sono bambini del Madagascar, che Cristina aiuta da anni attraverso un’associazione di padri gesuiti.
– Vedi Luca – mi confida – io ho la mia pensione di insegnante e questo lavoro è solo una passione. Ho aperto il laboratorio perché il ricavato andasse a quei bambini. La bontà non è un concetto astratto. Per questa signora del cioccolato va molto oltre il piacere delle sue praline.
Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite a Reggio Calabria, sulle rive dello Stretto; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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La nduja che accende la passione.

Oggi siamo in Calabria. Il paese è Spìlinga, il paesaggio l’altipiano del Monte Poro. Le coordinate geografiche sono 38°37’ Nord e 15°54’ Est.
Atterriamo sulle rive dello Stretto e con la macchina risaliamo verso nord percorrendo la A3 fino a Rosarno. La prima parte del tragitto – benché autostradale – è già interessante. Come in un parco tematico, dove la prima cosa da fare è salire sul trenino sopraelevato per vedere le cose dall’alto; così adesso la strada sale, spaziando sul Tirreno e fiancheggiando i declivi rocciosi e boschivi dell’Aspromonte.

Poi si scende e ci si perde nella piana degli agrumeti, tra chioschi ambulanti di frutta ai margini delle strade, case sparse e camion che vanno e vengono dai campi ai mercati del nord. Ripenso alle scene della rivolta dei braccianti, alle inchieste sul caporalato bianco e nero, alle cassette di mandarini pagate 50 centesimi l’una: una giornata di otto ore per metterne insieme una ventina. Verrebbe voglia di fermarsi e parlare. Cercare di capire. Però tiro dritto e in pochi chilometri la strada torna a salire. Questa è per molti aspetti una terra dimenticata e sofferente, però bellissima. La costa di Tropea sale morbida, curva dopo curva, tra macchia mediterranea e scorci di mare aperto. Una vista ampia che apre il cuore. Oggi il cielo è in continuo fermento, dalle nuvole al sole: cambiamenti repentini d’umore che rendono ancora più affascinante il paesaggio.

Arriviamo rapidamente a Spìlingaun paese costruito su un’unica strada principale in discesa, che nasce dal monte e si ramifica a valle in un dedalo di viuzze con case antiche in pietra, intonaco grigio e ferri battuti ai balconi e alle finestre. Mi ricorda un fiume, con la sorgente in alto e il delta in basso, in riva al mare. L’azienda modello di Luigi, il protagonista della puntata, è posta su un’altura alle porte del paese, dal lato dell’immaginaria sorgente.

Spìlinga è la capitale della nduja e Luigi il principale produttore. Si tratta di un insaccato molto particolare, piccante e spalmabile, che potrebbe essere prodotto ovunque e che invece si realizza solo qui. Domando perché, ma nessuno sa darmi una risposta precisa. Certo, qui si allevano maiali, ma Luigi mi spiega che sono pochi e insufficienti per una produzione di nduja poco più che domestica; ci sono anche i peperoncini, e quelli del Monte Poro sono davvero speciali: grandi, carnosi e asciutti. Qui il terreno è umido e non serve bagnarli. Adesso siamo fuori stagione e i campi sembrano pascoli, con l’erba verde alta. All’inizio dell’estate saranno preparati e seminati. Poi la natura farà il suo corso e il raccolto sarà come ogni anno abbondante. I peperoncini saranno messi a seccare all’aria aperta, protetti dal sole diretto e dalla pioggia; poi saranno ben spicciolati a mano e infine tritati e impastati per farne una crema piccanteMolto piccante. Forse sono proprio i peperoncini l’origine della nduja a Spilinga. In realtà il nome viene fatto risalire al francese andouille, un insaccato realizzato con tagli di scarto e frattaglie del maiale. Quale che sia l’origine, la nduja si produce a Spìlinga da moltissimo tempo, ma è solo da pochi anni che ha varcato i confini del paese e della regione.

Anche in casa di Luigi si preparava la nduja, però il prodotto era sempre diverso, di stagione in stagione. Più era piccante, più era considerato buono. Quando Luigi decise di diventare un produttore professionale di nduja e portare il prodotto della sua terra nel resto d’Italia e nel mondo, aveva bisogno di un maestro. Per fortuna aveva una suocera. Una donna speciale, che produceva una nduja altrettanto speciale, senza quelle incertezze tipiche dei prodotti amatoriali domestici. Eppure lavorava anche lei a occhio, e quando Luigi le chiedeva quanto peperoncino si dovesse mettere, rispondeva «quanto serve». Per cogliere i suoi segreti bisognava stare con lei: tacere e osservarla mentre lavorava. Poi imitare i suoi gesti, cercare di riprodurre la lievità tipica dei maestri. Credo sia molto difficile incontrare un uomo più legato di Luigi alla propria suocera. Ce la presenta direttamente nella sua casa, nel centro del paese. Lei ci apre la porta, affacciata sulla strada principale. È una signora anziana, con il volto segnato da rughe profonde che sembrano tanti sorrisi. Vede Luigi e s’illumina. Lui si era già illuminato. Davide le chiede se conosca la tradizione della battitura delle ginestre per ottenere tessuti. Lei dice di no, che la ginestra non l’ha mai vista battere da nessuno in Calabria. Però si alza e si avvicina a un armadio. Prende una tovaglietta di un bel tessuto grezzo e morbido, l’avvolge in una carta dorata e la offre a Davide.
– Questa è di canapa – dice – La lavoriamo noi, qui in Calabria.
Davide la prende e ringrazia. So che la conserverà come un dono prezioso.

La signora della nduja ci fa strada mentre scendiamo in cantina e realizziamo la parte forse più spettacolare delle riprese. Le sue nduje affinano tra pareti di pietra, con il camino acceso e la finestra che viene aperta e chiusa a seconda del tempo. Il laboratorio di Luigi è invece un luogo molto diverso, dove è stato finalmente possibile riprodurre su vasta scala e senza improvvisazioni le procedure della tradizione. Corridoi bianchi immacolati; Luigi e i suoi collaboratori indossano camici puliti, guanti, soprascarpe e cuffie in testa. Li seguiamo nei loro gesti quotidiani e entriamo nel vivo della produzione. Li vediamo tagliare il guanciale, la pancetta e il lardo, impastare le carni sminuzzate e mischiarle al peperoncino, insaccare l’orba – il budello cieco del maiale – legare le nduje e appenderle a stagionare. In queste celle non c’è il camino – che serve solo a togliere l’umidità – e la temperatura è tenuta costante da moderni termostati. Qui le nduje riposano almeno tre mesi, si tingono di rosso rubino e diventano eccezionali dopo anni.

– Vedi, Luca, – mi spiega Luigi, – per me era fondamentale realizzare una nduja di
altissima qualità, lavorando però in condizioni igieniche perfette. Volevo racchiudere nel mio prodotto tutto il gusto della mia terra.
– Un gusto piccante…
– Non troppo piccante: solo il giusto. Finora la nduja era sinonimo di piccante, invece deve essere sinonimo di qualità.
– Dicono che la nduja sia anche afrodisiaca…
– La nduja accende la passione!

Capisco che non parla di passione amorosa, ma di passione per la vita. Il piacere di fare qualcosa in cui si crede, e continuare a farlo nonostante tutto. Luigi si accalora, parlando della sua nduja. Allora scivola con la voce sulla j che pronuncia alla francese. Una consonante rara nella nostra lingua, che a Spìlinga è di casa come nei paesi d’Oltralpe.

La mattinata si conclude con Davide che esplora il territorio. Lo seguiamo tra le arcate del grande acquedotto romano, mentre perlustra le grotte del Monte Poro e visita la Madonna delle acque. Sempre con la sedia in spalla attraversa campi di cereali e pascoli, mentre la moglie di Luigi scola la pasta. Torniamo in laboratorio e mangiamo un piatt strepitoso. Mezzi paccheri artigianali prodotti da un fornaio locale: lisci fuori e rigati all’interno, perché il sugo di pomodoro, melanzane e nduja si raccolga come un ripieno, mentre sul palato la pasta resta morbida e liscia, quasi vellutata, con un filo d’olio a fare da velo. La nduja è protagonista del piatto e della tavola. Davide la mangia di gusto, spalmandola sul pane come fosse una pietanza.
– È davvero qualcosa di speciale – dice.
Tutti dovrebbero provarla e conoscerla.

Luigi taglia per noi alcune fette di una forma di oltre cinquanta chili invecchiata cinque anni. C’è tanta Calabria in questa nduja: non la Calabria dimenticata, ma quella da ricordare.
Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Calabria, a Spìlinga, il paese della nduja; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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