Archive for aprile, 2015

Le cantine del culatello.

Oggi siamo in Emilia. Il paese è Polesine Parmense, il paesaggio la Bassa Padana. Le coordinate geografiche sono 45°1’ Nord e 10°5’ Est.

La nostra auto corre rapida lungo le strade di pianura, tra curve morbide e rettilinei affiancati da campi di grano ancora verdi.
– Il cielo è piatto, – borbotto a Davide mentre allungo le braccia sul volante.
In effetti, oggi il verde dei campi è un po’ spento.
– È sempre bella la luce della Bassa… – dice lui con un filo di voce, come parlando a sé stesso. – Non è mai piatta…
Stiamo attraversando un paesaggio ampio. Una natura spesso avvolta nella nebbia, oppure abbagliata dal sole che si riflette sulle increspature del Po. Quando il cielo è grigio, l’ambiente si dilata e le giornate sembrano appese, come persone in attesa.

A un tratto, un cartello sul ciglio della strada indica l’Antica Corte.
– Ecco, ci siamo, – dice Davide.
Svolto e percorro la strada in leggera discesa. Pioppi lungo la via, a sinistra la Chiesetta del Po, con il campanile che sembra la copia in miniatura del Torrazzo di Cremona, a destra un campo dove pascolano libere alcune vacche e un cavallo. Poi la strada diventa sterrata. Giriamo intorno al fossato e costeggiamo il rialzo della golena, superiamo il ponte in legno ed entriamo nella corte. C’è un pavone, accanto alle biciclette. Non si cura di noi, mentre scendiamo dall’auto e salutiamo Massimo, il protagonista della puntata. Questa è casa sua.

Siamo venuti qui per raccontare la sua storia e quella dell’Antica Corte Pallavicina. Storie uniche, esemplari, che però racchiudono lo spirito di un popolo e sembrano fatte apposta per essere imitate, magari in scala ridotta, rispettando gli stessi valori e gli stessi tempi. Un po’ come il campanile della Chiesetta del Po, a un passo dall’argine: più piccolo di quello di Cremona, ma ugualmente bello.
Per raccontare questa storia è bene partire dalle origini, quando i marchesi Pallavicino costruirono il loro castello nel primo Trecento. Una dimora blandamente fortificata, posta dove il Po incrociava la Via del Sale. Luogo di scambi, merci e culture. Si navigava il fiume e si attraccava direttamente al pontile dell’Antica Corte, come a Venezia sul Canal Grande. Il castello non era stato progettato per respingere i nemici, ma per accogliere i prodotti alimentari, in larga parte derrate versate come tributi ai feudatari. I Pallavicino dovevano essere molto più interessati alla qualità dei cibi che alla forza delle armi.

Sotto di noi ci sono le cantine, ancora perfettamente in uso, realizzate settecento anni fa proprio per stagionare le eccellenze del territorio, soprattutto parmigiani e culatelli. Ancora oggi, sono questi i simboli di Zibello e della Bassa Parmense.
Nel Quattrocento la struttura divenne una grande azienda agricola e nel corso dei secoli conobbe alterne fortune, diventando addirittura una caserma dei Dragoni.
Il bisnonno di Massimo vi si trasferì alla fine dell’Ottocento. Lavorava come agricoltore per Giuseppe Verdi ed era il suo norcino preferito. I salumi e i culatelli che il Maestro tanto decantava, li produceva il bisnonno Carlo. Anche suo figlio, il nonno di Massimo, era un uomo di talento, che conosceva bene il suo mestiere e amava inventarsene di nuovi. Così, nel 1920, organizzò un servizio di battello per trasportare persone e merci da una sponda all’altra del Po.

Nelle stazioni di partenza e di arrivo aprì due osterie, gestite dalle donne di famiglia. Cucinavano ciò che si produceva nei campi dell’Antica Corte: le verdure dell’orto, le carni degli animali, le uova delle galline, i vini della vigna.
Non era solo un’attività, ma un sistema economico, che legava le persone al loro territorio. Questo piccolo mondo antico, raccolto sull’argine del fiume, è sopravvissuto alla guerra ed è rimasto in vita fino a quando la fuga dalle campagne, le piene del Po e l’ansia della modernità hanno cambiato il corso delle cose. L’Antica Corte Pallavicina, dove Massimo era nato e la sua famiglia aveva vissuto e lavorato per generazioni, fu abbandonata. Poi, lontano dalla vecchia casa sul fiume, Massimo trovò la sua strada e diventò un grande chef, rimanendo però un uomo di campagna, un cuoco agricoltore.

Davide cammina lungo il perimetro del castello e posa la sedia. Indica l’Antica Corte alla sue spalle ed esclama:
– Massimo e suo fratello non potevano lasciare che la loro casa andasse in rovina! E per darle un futuro, hanno fatto tutto come nel passato, rimettendo ogni pietra dov’era sempre stata.
Dopo oltre vent’anni di lavori, l’Antica Corte dei Pallavicino è tornata a essere come un tempo: una grande azienda agricola con gli orti e la vigna, il frutteto, i suini di razza Nera Parmigiana, le vacche al pascolo, le galline e le oche e le anatre nel cortile, il ristorante, le camere e le cantine, dove stagionano salumi e formaggi prodotti qui, con le materie prime di casa.

Questa è la storia di persone che hanno trovato se stesse, ritrovando la propria terra. Ogni prodotto di quest’azienda è un mondo, tutto da scoprire.
Davide si alza e s’incammina verso le cantine. Scendere una rampa di scale in pietra antica, aprire il chiavistello di una vecchia porta di legno ed entrare in uno spazio sotterraneo dove stanno affinando migliaia di culatelli di Zibello, non è cosa da tutti i giorni. Credo che queste cantine siano uniche al mondo. I muri trasudano l’umidità e le muffe nobili si trasmettono dai culatelli più anziani a quelli più giovani. Il naso poco allenato si perde nella massa dei profumi, mentre l’occhio indugia sulle forme dei culatelli. Alcuni sono più tondi e gonfi, altri allungati e raggrinziti. Anche le superfici sono molto diverse: lisce e rosate, oppure brune e rugose, coperte di concrezioni come conchiglie nel mare.

Massimo è con noi e ci presenta la sua cantina, uguale a quella dei signori di settecento anni fa. C’è una grande finestra a nord, da cui entra l’aria del fiume; poi due feritoie ai lati per farla circolare. Ma non è solo l’aria che entra in cantina e accarezza i culatelli: c’è anche la nebbia, la vera signora della Bassa.
– Quando c’è nebbia, apriamo la finestra, – dice Massimo, – ed è allora che si compie il miracolo.
Mesi di allevamento dei maiali e giorni di lavorazione delle carni, diventano pregiati culatelli di Zibello. È un processo lento, un miracolo appunto, che si compie qui in cantina, con la nebbia che entra, avvolge le forme e trasforma le carni.

Massimo e Davide avanzano facendosi letteralmente largo tra i culatelli appesi, destinati ai più importanti chef di tutto il mondo. Non è proprio cambiato niente. Questi culatelli sono come quelli che il bisnonno Carlo faceva per Giuseppe Verdi. Tutto è rimasto come una volta. Un grande passato, che è già futuro.
Usciamo dalle cantine senza fare rumore. Chiudiamo la porta, lasciando aperta la finestra sul fiume. Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Venite nella Bassa Padana, a Polesine Parmense; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

Il torrone di Crema.

Oggi siamo in Lombardia. Il paese è Crema, il paesaggio la Pianura Cremasca. Le coordinate geografiche sono 45°21’ Nord e 9°40’ Est.

Parto con comodo da Genova; l’appuntamento è intorno alle dieci del mattino. All’altezza di Tortona, squilla il telefono. È Davide, che è già quasi arrivato. So che in questo momento dovrei svoltare a destra verso Piacenza, ma sono distratto e mi lascio guidare verso nord dal navigatore. Quando riattacco, Davide sta probabilmente già indossando l’abito di scena nella gelateria di Mauro, il protagonista della puntata, mentre io procedo a passo d’uomo lungo la tangenziale di Milano. Una situazione irritante. La tangenziale è un luogo – o meglio, un non luogo – scritto nel destino dei milanesi; Davide lo conosce bene e per questo lo evita muovendosi all’alba, partendo in anticipo per non arrivare in ritardo.

Procedo lentamente, circondato di macchine. Piccoli mondi dove ognuno ha qualcosa da fare. Tamponarsi adesso sarebbe un gioco da ragazzi. Mi concentro ed evito il pericolo. Quando esco dalla grande strada abbasso i finestrini e respiro, ma è solo un attimo. Ci sono le statali di pianura da percorrere, sempre dietro qualche camion. Il paesaggio scorre monotono, con fabbriche e campi di cereali attraversati da vie affollate. Un tempo, tutto questo era bosco, con acqua, fiumi e risorgive: paludi e marcite che rendevano il territorio selvaggio e poco sfruttabile. Poi fu progressivamente bonificato, cambiò volto e divenne la terra degli scambi, dei commerci, della produzione.

Crema nacque intorno al Mille come borgo fortificato, posto su un lieve rialzo del terreno. Ma era lì, tra Milano e Venezia, al centro delle grandi vie di comunicazione. Una città destinata a far fortuna. Alla metà del Quattrocento divenne veneziana: un lembo di Serenissima all’interno del Ducato di Milano. Sono ancora tanti i riferimenti a Venezia disseminati nella città: iscrizioni, leoni di San Marco, icone di Cannaregio. Crema era un avamposto veneziano, al centro dei suoi Domini di Terra, con una diocesi che estendeva il proprio controllo fino a Genova.

Entrando in città, le macchine diventano di colpo biciclette, le case e le fabbriche monumenti. La pianura degli scambi si trasforma in una città d’arte e cultura, dove i ritmi serrati della produzione diventano i tempi lenti della contemplazione. Crema offre una concentrazione di chiese, monumenti e dimore storiche davvero unica. Siamo venuti qui per parlare di torrone, ma siccome la preparazione artigianale di questo dolce tipico – ormai in via di estinzione – è molto lunga, decidiamo di filmare prima la città e i suoi scorci migliori.

Ci accompagnano Mauro e Annunziata, una guida molto esperta, che ama la sua città e con pazienza ci apre le porte dei luoghi più interessanti. Grazie a lei riusciamo a fare un po’ di selezione; troppa bellezza rischia di stordire.
Iniziamo dal Duomo, un edificio di grande armonia, misto di romanico e gotico. Nel campanile della Cattedrale suonano ancora le campane settecentesche della fonderia Crespi. All’interno scopriamo un crocefisso ligneo, con un Cristo dal volto magnetico. La sofferenza affiora cruda dalla piega degli occhi allungati, dalle labbra strette, dagli zigomi alti e sporgenti. Siamo di fronte a un Dio diverso e inatteso, dai lineamenti orientali, quasi mongoli o caucasici.

Poi l’Arco del Torrazzo, uno dei simboli della città, e una visita al Palazzo Comunale. Annunziata ci porta all’interno, per filmare la piazza dai balconcini dell’edificio. Massimo posiziona la telecamera e inquadra Davide, davanti al Duomo, circondato di passanti che lo riconoscono e si fanno fotografare con lui. Stupisce sempre la forza della televisione.
Un salto fuori città per ammirare la Basilica di Santa Maria della Croce e poi la tappa più suggestiva: il refettorio dell’ex Convento di Sant’Agostino, oggi Museo Civico.

Si diceva della potenza di Crema e della sua diocesi. Ecco spiegate le dimensioni di questo convento, la bellezza dei chiostri e l’imponenza degli affreschi del refettorio realizzati da Pietro da Cemmo. Alle estremità della sala due grandi immagini della Crocefissione e dell’Ultima Cena, ai lati le lunette dei padri agostiniani, le raffigurazioni monocrome dei re d’Israele e un tessuto decorativo di grottesche e fregi che corrono lungo le volte. Un luogo che merita una visita attenta. Un tesoro nascosto, da scoprire e valorizzare.
Infine raggiungiamo le vecchie mura, nella zona di Campo di Marte. C’è un prato con l’erba alta, il baluardo in mattoni rossi che luccicano alla luce del sole. Davide raggiunge un punto riparato e finalmente si siede. All’ombra delle vecchie mura, si sente come a casa.

Nel frattempo ci telefona la moglie di Mauro. Siamo in ritardo e il torrone rischia di bruciare. Lasciamo la storia di Crema ed entriamo nel vivo di quella di Mauro, uno dei migliori gelatieri d’Italia. La sua famiglia aveva un piccolo ristorante e offriva un po’ di gelato come dessert nei giorni di festa; suo padre decise invece di puntare su questo prodotto e aprì una gelateria. Mauro lo seguiva da lontano, aveva altri progetti. Si occupava della gestione di strutture complesse, pericolose e affascinanti. Un lavoro che durò fino al referendum sul nucleare. Poi la decisione di tornare alla dimensione artigianale di famiglia, forte però dell’esperienza acquisita, avendo maturato un’attenzione quasi maniacale al controllo dei processi di lavoro. Iniziò studiando i cibi e la chimica degli alimenti, poi affinando la gestione delle produzioni. La sua attività è da oltre vent’anni di altissima qualità: il suo locale un punto di riferimento per la degustazione del gelato artigianale.

Una decina d’anni fa, si mise in cerca di un produttore di torrone per realizzare nuovi semifreddi. Ma non lo trovò. Scoprì che nella sua città – così come a Cremona – non c’era più nessuno che producesse in maniera artigianale il dolce tipico. Decise allora di fare da sé e iniziò studiando le antiche ricette, ascoltando le testimonianze dei vecchi artigiani ancora in vita ma non più in attività. Poi acquistò macchina degli anni Cinquanta con la caldaia in rame per scaldare il miele a bagnomaria. Infine cominciò a sperimentare, sbagliare e riprovare. Selezionò gli ingredienti migliori, mise a punto le dosi e iniziò la produzione.

Al mattino presto si mette il miele a scaldare. Una cottura lenta e prolungata, che l’industria risolve con temperature altissime. Il miele è l’ingrediente fondamentale del torrone, la sua anima dolce. Mauro usa miele biologico di un piccolo produttore locale: una miscela di robinia, tiglio e amorpha fruticosa, una pianta selvatica che cresce sulle rive del Serio e dell’Adda. Dopo circa tre ore si incorpora l’albume delle uova, sgusciate a una a una. Poi altre cinque ore di cottura, continuando tenacemente a menare il torrone, l’aggiunta dello zucchero di canna cotto e infine delle mandorle, che costituiscono oltre il 50% del prodotto finale. Mauro usa mandorle di Toritto, presidio Slowfood della Puglia.
È interessante notare che l’ingrediente principale del torrone cremasco viene dal Sud. Qui, nelle terre dell’Isola Fulcheria, non esistono mandorli. Segno che probabilmente questi frutti preziosi erano stati portati dai mercanti in viaggio lungo la rotta degli scambi e poi rielaborati secondo ricette ebraiche e arabe, culture da sempre legate all’uso del miele e della frutta secca.

Dopo otto ore di lavorazione, la massa del torrone è pronta per l’estrazione. Ma non è facile da lavorare, così calda e densa. Si arrotolano dei grossolani cilindri da un paio di chili l’uno e si ricavano delle piccole porzioni da un paio d’etti ciascuna. Per distinguersi dall’industria, invece delle tradizionali stecche di torrone, Mauro realizza a mano delle tortine che vengono confezionate ancora calde, in modo che il prodotto non assorba umidità e non perda la caratteristica fragranza.
Chi pensa che il torrone sia un dolce duro, deve provare quello artigianale cremasco.
– È morbido come Crema! – esclama Davide di fronte alla telecamera.

Quando ci salutiamo, Mauro mi consegna un sacchetto con un po’ del torrone prodotto oggi. Si raccomanda di non mangiarlo subito, ma di aspettare un paio di settimane perché i gusti si stabilizzino e gli aromi trovino il proprio equilibrio. Nel frattempo, noi ci muoviamo verso nuovi paesi e nuovi paesaggi.
Venite a Crema, città d’arte e torrone; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

Il Chianti selvaggio.

Oggi siamo in Toscana, a Gaiole in Chianti. Le coordinate geografiche sono 43°28’ Nord e 11°26’ Est.

Il paesaggio è composto da morbide ed eleganti colline: una distesa di lievi ondulazioni del terreno coperte da vigneti, casali e castelli. Gaiole in Chianti è poco distante da Siena, una trentina di chilometri appena. Dalla terrazza di Lorenzo, il protagonista della puntata, osservo la linea di confine che divideva i Guelfi dai Ghibellini, il Papato dall’Impero.

Siamo nel cuore del Chianti Classico, la terra del Gallo Nero. La leggenda narra che per stabilire i territori di Siena e Firenze, due cavalieri fossero partiti al canto del gallo dalle rispettive mura per incontrarsi in un punto che sarebbe diventato la linea di confine. I fiorentini erano scaltri e determinati: scelsero un gallo nero e lo tennero al buio senza cibo per alcuni giorni, perché la notte della sfida cantasse prima dell’alba. Il cavaliere fiorentino non fu più veloce: partì prima.

È solo una leggenda, però molto bella. Lorenzo la conosce bene e ridacchia a ogni passaggio. Lui tifa Fiorentina, ma alleva cinti senesi, la razza suina autoctona dipinta già dal Lorenzetti nel Trecento. Li alleva allo stato semibrado nel Chianti selvaggio, un territorio inatteso che dalla strada del vino si fatica anche a immaginare. Gaiole in Chianti è la tipica città mercato medievale: un borgo aperto, senza mura, con una strada principale che si allarga in una piazza dove si scambiavano le merci. Vista dall’alto, la cittadina riassume l’idea stessa di commercio: fluidità di scambi, rapidità di accessi, facilità di comunicazioni.
Il mondo sembra complesso, ma in realtà è semplice. Basta guardarlo dall’alto.

Lorenzo è il macellaio di Gaiole in Chianti, come il padre Vincenzo. Una famiglia di allevatori, macellai e norcini dal Seicento in poi. La qualità dei loro salumi lascia senza fiato. Girovagando con Davide ne ho assaggiati parecchi, ma questi credo che siano i migliori, soprattutto i prosciutti. La cantina di stagionatura, la cosiddetta prosciuttaia, è intrisa di profumi di sale, spezie e umidità della pietra. Mette fame anche a chi è sazio. Le carni della bottega sono eccellenti. La madre di Lorenzo le cucina senza astuzie né scorciatoie; solo esaltandone la genuinità con aromi del bosco, legna e un paziente uso del tempo. Ci invitano a cena. Quando entriamo in casa, il fuoco arde nel camino già da ore; l’arrosto gira sulle braci. Quando ci sediamo, c’è solo da mangiare e ringraziare.
Davvero, grazie.

L’indomani, alle sei e mezzo, siamo tutti sulla jeep. Massimo e le attrezzature sull’auto di Lorenzo; Davide e io sulla Panda 4×4, forse la macchina più bella e simpatica del mondo. Ci sorprenderà anche oggi. Siamo diretti nell’allevamento di cinti senesi di Lorenzo, la sua passione. Ci promette un viaggio all’avventura e noi lo seguiamo fiduciosi. Faremo un giro lungo, per riprendere il paesaggio da scorci diversi.
Quando il sole sorge, siamo già sul crinale della collina, in un bosco di pini alti una trentina di metri che oscillano sulle nostre teste. Ogni tanto si sente un rumore sordo, come di rami spezzati, e poi un tonfo, come di rami caduti. C’è da stare attenti, nel Chianti selvaggio. Le vigne della Rocca di Castagnoli sono a un passo, ma è un altro mondo, fisico e mentale. Un mondo distante.

Risaliamo in macchina e proseguiamo. Il maltempo dei giorni scorsi ha fatto danni e il sentiero è pieno di alberi caduti. Ci fermiamo spesso, scendiamo e spostiamo. Una volta trasciniamo a braccia un tronco, un’altra lo spostiamo con la jeep. Quando l’albero è troppo grande per noi, armati di roncola ci apriamo un varco laterale e aggiriamo l’ostacolo. I cinti senesi ci aspettano. Ci sono tre scrofe che potrebbero sgravare da un momento all’altro. Ma proprio quando vorremmo sbrigarci, siamo costretti a scendere dalla Panda. La strada che le piogge avevano reso un pantano è diventata una roccia acuminata. Il freddo l’ha ghiacciata. La macchina è troppo bassa e la terra troppo sconnessa e dura.

Tornano alla mente le lezioni americane di Calvino e le sue parole sulla leggerezza. Così scendiamo e proseguiamo a piedi, lungo il versante della Valdarno. La Panda respira e torna a fare strada, saltellando agile sugli aculei del terreno.
Al termine della mattinata, quando finalmente arriviamo dai maiali, le riprese sono ancora tutte da fare. I cinti senesi però sembrano attori e rendono tutto facile. Rispondono ai richiami di Lorenzo come cani da pastore. C’è una recinzione elettrica che non serve a impedire che i maiali scappino, ma ad evitare che i cinghiali entrino. I suini di Lorenzo sono come marinai: spiriti liberi che amano il porto.

Lorenzo ha preparato il cibo, naturale integrazione dell’alimentazione spontanea del bosco, a base di ghiande, bacche e radici. In realtà, non dà da mangiare ai suoi cinti, ma fa da mangiare per loro. I maiali lo seguono mansueti: sono animali domestici e selvatici insieme. Sono bellissimi, con il mantello scuro che sembra ardesia e la cinta banca che unisce le zampe anteriori abbracciando il garrese.
Lorenzo torna dalle scrofe che aveva già visitato nella notte, prima di uscire con noi. Non hanno ancora partorito. Una sembra pronta, ma qualcosa la trattiene. Aspetta l’ordine della Natura che arriverà in serata, quando noi saremo andati via.

Torniamo nel borgo. È qui che si finalizzano le attività di Lorenzo e di suo padre Vincenzo, nel solco della tradizione norcina toscana. L’amore per la natura e gli animali diventa cibo, dopo l’esperienza della morte. È una questione delicata, da affrontare con rispetto. Un legame profondo lega questi uomini ai loro animali; dipendono gli uni dagli altri. Sul banco disponiamo i prodotti come fossero le tessere di un mosaico. Formano la sagoma stilizzata di un suino. Con molta passione, Vincenzo e Lorenzo spiegano al pubblico che dalla schiena di un animale adulto, dopo mesi di vita all’aria aperta, si ottiene l’arista, dalla coscia il prosciutto, dagli anteriori i salami; poi proseguono mostrando il capocollo, la pancetta, la spalla, il guanciale, le salsicce, la soppressata, il buristo. Tutti prodotti eccezionali, lavorati con una sapienza artigiana che in questa famiglia si tramanda da oltre tre secoli.

Finiamo in serata, quando il sole scollina dietro i vigneti della Rocca e il bosco si oscura. Per noi è tempo di andare, verso nuovi paesi e nuovi paesaggi. Prima di salire in macchina, Davide entra nel bar della piazza. Ordina un caffè e posa una moneta sul banco. L’uomo lo riconosce e lo saluta con discrezione.
– Com’è la frase? – gli domanda. – Venite, ma non come turisti…
– Venite a Gaiole in Chianti, – esclama Davide, – ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!
L’uomo del bar sorride, serve il caffè e con un movimento lieve delle dita spinge la moneta verso Davide.
– Ecco, come ospiti…

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it

La Casa Cava.

Oggi siamo in Basilicata. Il paese è Matera, il paesaggio la Murgia Materana. Le coordinate geografiche sono 40°39’ Nord e 16°36’ Est.

Oggi non c’è un viaggio da raccontare. Eravamo già nella città dei Sassi e non abbiamo intenzione di andare altrove. Potremmo stare ore affacciati sulla vertigine della Gravina a ispezionare gli anfratti del tempo. Visto dall’alto, questo luogo sembra il giocattolo di un gigante, il suo castello di sabbia. E invece è la terra di tanti operosi esseri umani, anonimi cavamonti che hanno scalpellato i propri spazi nel tufo. I Sassi di Matera, dopo essere stati vergogna nazionale e Patrimonio Mondiale dell’Umanità, saranno tra poco il cuore pulsante della Capitale Europea della Cultura.

Passeggio con Davide sulla via che costeggia il dirupo. In sottofondo, il mormorio del fiume, come un Piave che brontola al passaggio degli stranieri.
– Matera è una vera capitale della cultura, – dice Davide, continuando a guardarsi intorno. – Qui la bellezza non è un concetto astratto, ha la concretezza della pietra.
– Pietra docile, malleabile…
– Come una conchiglia. È la natura che protegge gli esseri umani.
– Murgia viene da murex, murice.

Non riusciamo a staccare lo sguardo dalla città antica, rimbalzando continuamente con lo sguardo dal generale al particolare. I Sassi colpiscono per la ricchezza inesauribile dei dettagli e al tempo stesso per l’omogeneità dell’insieme: tutto sembra l’opera di uno scenografo, e invece è il frutto di generazioni di mastri e scalpellini, ciascuno impegnato a realizzare piccole cose: abitazioni, chiese, cortili, cisterne, condotte d’acqua… Non hanno nome quegli individui, ma hanno realizzato un’opera d’arte irripetibile, lento e tenace stratificarsi di esperienze comuni, maturate nel tempo.

– Di solito pensiamo ai Sassi come a una scultura, – dice Davide all’improvviso, – invece sono un quadro. Prima una pennellata, poi un’altra… e avanti così, per secoli e millenni…
– Ci sono oltre centocinquanta chiese, costruite sottoterra come quelle di superficie.
– Fanno anche loro parte del quadro. Si potrebbe riscrivere la storia dell’arte italiana partendo dalle pitture rupestri delle chiese di Matera.
Continuiamo a camminare lungo la via della Gravina. La Civita a sinistra, il burrone a destra. La strada sale. Il telefono di Davide squilla, lui non risponde.
– Questa è una città che ispira cultura, – dice con il fiato corto, – spero che nel 2019 non la imbottiscano di eventi.

Arriviamo al Monastero di Sant’Agostino e ci inoltriamo nel Sasso Barisano. Alcuni turisti scattano fotografie mimetizzati nel tufo. Immagino quando saranno migliaia, richiamati dal grande avvenimento. Penso agli equilibri fragili della città. Matera è il frutto di una continua relazione tra gli esseri umani e l’ambiente; un dialogo iniziato nel Neolitico e mai interrotto. In superficie si sviluppa un dedalo di costruzioni da cui emergono stratificazioni latine, longobarde, normanne, rinascimentali e barocche. Un mondo di bellezza che conserva i profumi del tempo, le stagioni della vita. Un volto che si sovrappone all’anima sotterranea della città segreta, magica e misteriosa.

– Ci siamo, – dico a Davide, giungendo nello slargo di via San Pietro Barisano. Antonio, il protagonista della puntata, ci viene incontro. È il direttore di Casa Cava, un edificio che in qualche misura può essere considerato un simbolo della città, una metafora della sua storia.
La vicenda di Casa Cava merita di essere raccontata, perché è un esempio di come le istituzioni pubbliche e le associazioni private possano lavorare insieme e realizzare opere di valore. Recuperare sassi dal passato e gettarli nello stagno del futuro. Perché smuovano le acque e producano cerchi ampi.

– Ciao Davide, benvenuto a Casa Cava.
– Ciao, Antonio. Dimmi, perché si chiama Casa Cava?
– Be’, perché in origine era una casa e una cava.
Antonio ci guida nell’ingresso di quella che sembra un’abitazione. C’è un tavolo, con un computer e un disegno architettonico appeso alla parete. Antonio si avvicina al progetto e inizia il racconto. Ci mostra la struttura allungata della grotta. Siamo all’estremità del Sasso Barisano che guarda verso l’orizzonte della Murgia; seguiamo il dito di Antonio che entra nelle viscere della terra verso il fondo della cavità.
– Questa era l’abitazione, usata probabilmente da alcune famiglie, – dice mostrando la parte iniziale del tunnel.

Il suo dito prosegue e si perde in una zona scura, alta e profonda: qualcosa di unico nel mondo dei Sassi.
– Questa invece era una cava di tufo, usata per un paio di secoli per costruire la città esterna, diciamo dalla fine del Quattrocento.
– E poi? – chiede Davide.
– Poi la cava è stata dismessa ed è diventata una discarica; successivamente anche la casa è stata abbandonata.
– Fino agli anni ottanta del Novecento?
– Esatto. Fino a quando un tecnico del comune, facendo un’ispezione nella grotta, ha trovato anomala la struttura poco profonda del sito, come se mancasse qualcosa…
– Non capisco, – dico io. Davide attende le parole di Antonio; segno che anche a lui sfugge qualcosa.
– Dunque, – spiega il direttore di Casa Cava, – immaginate che tra il XV e il XVI secolo, nella città nuova si scavi dall’alto un pozzo per estrarre il tufo che serve alla costruzione dei palazzi. In basso, nel Sasso Barisano, altri scavano in orizzontale una grotta e la abitano. Quando la cava viene dismessa, gli uomini della grotta rompono un’ultima barriera di tufo, e invece di trovare un ambiente abitabile scoprono questo immenso spazio verticale. Non gli serve, tornano indietro e richiudono la parete.

Negli anni Ottanta, dopo l’abbandono dei Sassi, un geometra del comune entrò nella grotta per effettuare dei rilievi e si domandò come mai questa casa fosse più corta delle altre; notò anche un muro in fondo all’abitazione e decise di scoprire cosa nascondesse.
Così, la casa e la cava sono diventate Casa Cava. Il progetto di riqualificazione è degli anni Novanta e nasce dal lavoro congiunto delle istituzioni e dei privati. Nella zona della cava, adesso è stato ricavato un auditorium con un’acustica perfetta.

Casa Cava è un centro per l’arte, la cultura e la creatività giovanile, sede permanente di convegni, laboratori, performance artistiche e concerti. Un luogo del passato che si apre al futuro.
– Avete fatto un lavoro fantastico, – esclama Davide camminando tra le stanze recuperate e raggiungendo l’auditorium, dove un gruppo musicale sta provando un brano popolare lucano rielaborato su armonie jazz. Poi, a bassa voce, quasi a se stesso, aggiunge:
– Mi raccomando, non affogate la città negli eventi. Rispettate i suoi spazi e i suoi tempi…
So a cosa sta pensando. Matera è un luogo unico al mondo, capace di ispirare e produrre arte. Proprio ciò che si chiede a una Capitale Europea della Cultura: generare bellezza, non solo ospitare eventi.
Al termine delle riprese usciamo da Casa Cava e ripercorriamo in senso inverso la strada che costeggia la Gravina. Restiamo in silenzio, mentre il giorno declina lentamente. I nostri passi sono rapidi, ma senza fretta. C’è un po’ di freddo che si distende sulla Murgia. È tempo di rincasare, in grotta.

Venite a Matera, la città dei Sassi, Capitale Europea della Cultura; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

Clicca qui per leggere l’articolo pubblicato su mentelocale.it


| realizzato da panet.it |  | ©2008 Luca Masia |