Archive for marzo, 2015

Il pane dei Sassi.

Oggi siamo in Basilicata. Il paese è Matera, il paesaggio la Murgia Materana. Le coordinate geografiche sono 40°39’ Nord e 16°36’ Est.

All’aeroporto di Bari, dove noleggio una macchina, mi chiedono se voglio le catene.
– A Matera sarebbero obbligatorie…
– Non è previsto maltempo, – dico io.
– La città è in montagna: fa freddo, potrebbe nevicare
Firmo il contratto e salgo in macchina, senza catene. La strada corre nella notte, dritta e rettilinea, attraversando campi piatti e uniformi. Non vedo i cereali, ma so che ci sono. Non vedo nemmeno la montagna, ma so che arriverà.
Dopo Altamura sono ancora nel mezzo della pianura. Solo in prossimità del cartello di Matera, il muso dell’auto si alza di qualche grado. Non c’è la neve, e nemmeno la montagna. Qualche curva ampia e sono nel paese nuovo, quello nato dopo la vergogna nazionale e l’abbandono forzato dei Sassi.

La prima sorpresa è la gente. Sono le otto passate e tutti passeggiano in strada. I negozi sono aperti e ben illuminati. Mi perdo più volte. Finisco in un senso unico a ridosso del centro storico dove in un altro luogo mi avrebbero tolto la patente. Qui invece mi si avvicinano pazienti, mi sorridono, mi spiegano come raggiungere il mio albergo. Seguo le indicazioni e dopo un lungo giro mi ritrovo davanti a un semaforo verde, all’imbocco di una discesa ripida lastricata. Ci siamo. Il viaggio nel tempo, nella città che resiste dal Neolitico, comincia adesso. Passo davanti alla chiesa di San Pietro Caveoso e proseguo fino al parcheggio ricavato in una curva della strada.
Esco dall’auto, disorientato. Da un lato la città, che affiora nella notte punteggiata di piccole luci; dall’altro il niente. Mi sporgo dal parapetto. Percepisco il vuoto, profondo, con un rumore sommesso d’acqua che sale dal fondo. Infine entro in albergo, che è una grotta di lusso. E mentre mi addormento, penso a quanto Matera assomigli a Venezia: l’una strappata all’acqua, l’altra alla roccia.

L’indomani mattina, la sveglia suona presto. Il sole è alto e illumina la Murgia. Adesso posso vedere ciò che ieri intuivo soltanto. Un monte che sale di colpo dalla pianura, con una grande spaccatura al centro e il fiume in basso. Sulle pareti di tufo, un’intera città che sembra uscita dalle pagine di Calvino. Me lo vedo, Marco Polo che racconta per filo e per segno questo mondo sotterraneo: la sua gente, le sue abitudini di vita che hanno attraversato i millenni. E Kublai Khan che sgrana gli occhi e non crede alle parole del veneziano. Nemmeno quando gli dice che i Sassi, dopo l’abbandono degli anni Cinquanta sono diventati Patrimonio dell’Umanità e presto saranno Capitale Europea della Cultura.

È tutto talmente unico che il Gran Khan non ci crede. Bisogna essere di Matera, per crederci. Massimo, il protagonista della puntata, è un giovane fornaio di Matera. Un uomo che crede nella sua città. Noi del nord lo chiameremmo panettiere, ma lui è un fornaio, di terza generazione. La famiglia aveva il forno nei Sassi, poi il nonno era migrato nella parte nuova prima degli altri, guardando lontano. Qualche anno fa, anche il nipote ha saputo guardare lontano, intuendo che il futuro del pane di Matera era racchiuso nella sua storia, nei novemila anni di fragranza croccante. Pagnotte sacre, fatte per durare. Il rischio era quello di perdere nelle pieghe voraci della modernità i segreti di questo pane antico come i Sassi, gettarlo nel fondo della Gravina e sostituirlo con panini fatti d’aria, lieviti industriali e farine raffinate.

Massimo e altri giovani fornai di Matera hanno invece ritrovato le ricette, ricostruito la storia del pane che avevano conosciuto da bambini, imparato i gesti e i tempi del forno; poi hanno scritto un disciplinare e sono riusciti a ottenere l’Indicazione Geografica Protetta, il marchio di qualità che l’Unione Europea attribuisce a quei prodotti alimentari
che sono frutto di un luogo, della sua storia, morfologia e cultura. Cibi che altrove sarebbero impossibili.

Davide si accosta con molto rispetto al forno di Massimo. Il vapore esce dal portello, che ogni tanto deve essere aperto per controllare la cottura e regolare la temperatura. La cottura è lenta, almeno due ore. La temperatura è alta all’inizio, poi diminuisce gradualmente, perché all’esterno delle pagnotte si formi una crosta alta e croccante e all’interno una mollìca alveolata, densa e consistente.
Davide discute molto con il personale del forno. Mi sorprendono sempre la sua curiosità e l’attenzione ai dettagli. Assaggia e domanda. A un tratto nota qualcosa e mi chiama eccitato. Le pagnotte, illuminate dalle braci, sembrano pezzi di terracotta e ricordano i guerrieri cinesi del primo Imperatore, l’uomo della Grande Muraglia.
– Vedi, – mi dice Massimo, – la storia di Matera è tutta scritta nel suo pane.
Prima di richiudere il portello mi indica le pietre del forno.
– Ognuna cuoce in modo diverso, – spiega, – e le donne che portavano al forno il pane,
avevano la loro preferita.

Spezziamo un frammento di crosta e mentre mangiamo torniamo a parlare di quella comunità, povera ma dignitosa, che aveva incontrato Carlo Levi: i bambini avevano le mosche sugli occhi ma tutti lo invitavano in casa a dividere ciò che c’era. Il pane era la prima cosa, la più importante. Le donne, al mattino presto, lo mettevano a lievitare nel letto, dopo che il marito si era alzato per andare nei campi. Il calore dell’uomo dava all’impasto l’ultima spinta prima di essere infornato. Come un incoraggiamento.
– E il lievito madre? – domando. – Sarà millenario pure lui…
– Nient’affatto! Da noi è sempre fresco.

Massimo mi racconta delle sue ricerche presso le anziane che avevano vissuto nei Sassi. Il lievito madre non mancava mai in casa, e se mancava c’era sempre una vicina pronta a prestarlo. La tradizione, che adesso è parte integrante del disciplinare, voleva che venisse fatto con frutta fresca di stagione, lasciata macerare nell’acqua e poi aggiunta alla farina.
Giusto, la farina. Il pane di Matera si produce solo con semola di grano duro lucano, della varietà Senatore Cappelli, quel grano antico e prezioso di un’Italia che al di là della retorica fascista credeva nella terra. Una specie di grano padre, da unire al lievito madre.

Adesso che l’impasto è pronto e ben lievitato, possiamo procedere. Massimo lavora e Davide imita i suoi gesti. Sono azioni precise; ognuna racconta una storia. Si comincia con una prima piega, poi una seconda, quindi si pratica un solco al centro che ricorda la Gravina e che si realizzava con un movimento dell’avambraccio, poi si solleva la testa della pagnotta e si spinge la spalla, perché il pane cresca in altezza come i Sassi e non tocchi mai quello del vicino. Guai se due forme dovessero baciarsi, sarebbero da buttare. Infine si praticano i tre tagli che richiamano la Santissima Trinità.
– Vedi, – mi spiega Massimo togliendo dal forno le pagnotte appena cotte, – i tagli erano in basso, poi con la cottura sono saliti e alla fine te li ritrovi in alto.
– Succede perché hai spinto la spalla dopo aver sollevato la testa?
– Bravo! Quello che sembra un gesto da niente, è la chiave di tutto.

È sera. Torno nella mia grotta di lusso, mentre Matera ridiventa a poco a poco un presepe notturno. Da un lato la vita, tenacemente aggrappata alla roccia, sempre alla ricerca dell’acqua che scorre in profondità; dall’altra la notte, che sovrasta le case, addossate le une alle altre. Mi riaddormento felice. Percepisco l’umido del tempo, che scorre lento e svapora, assorbito dal tufo.
Venite a Matera, città dei Sassi e Capitale Europea della Cultura; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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I fusilli di Pisa.

Oggi siamo in Toscana. Il paese è Lari, un piccolo borgo medievale immerso nel paesaggio delle colline pisane.Le coordinate geografiche sono 43°33’ Nord e 10°35’ Est.

– Lari il paese più bello del mondo, – mi aveva detto al telefono Dino, il protagonista della puntata.
Avevo sorriso, pensando che tutti gli italiani dicono così del loro paese, soprattutto i toscani.
– Siamo una famiglia di pastai dal 1926, – aveva proseguito. – Viviamo e lavoriamo nel cuore di Lari, di fronte al castello. Da noi si respira un’atmosfera speciale…
– Come un piatto di pasta a mezzogiorno?

Mi era venuta in mente una campagna pubblicitaria della metà degli anni Ottanta, incentrata sul ritorno a casa degli italiani a metà giornata: un popolo intero che lasciava i campi, le fabbriche, gli uffici e le botteghe per sedersi a tavola e mangiare un piatto di pasta.
Era il gusto del mezzogiorno. Chissà, forse a Lari esiste ancora il mezzogiorno, e ha il gusto della pasta.

Arrivo tardi la sera. I miei amici sono ancora a tavola. Tra Davide e Massimo siede una ragazza che non conosco. Mi sorride e mi saluta. Tra la frutta e i dolci c’è un avanzo di pasta al ragù. Mi incarico di finirla. È fredda, ma ottima.
– Hai visto come ha tenuto la cottura? – mi domanda Davide.
– È perfetta…
– È nostra! – esclama la ragazza, con un sorriso luminoso. Le sorrido anch’io; adesso so chi è. Quando ci alziamo, poco dopo, ci diamo appuntamento per l’indomani.

Il mattino seguente, nella casa laboratorio di fronte al castello, si comincia con la preparazione dell’impasto per gli spaghettini. È sabato e non sarebbero in produzione, ma la famiglia di pastai farà un’eccezione per noi. Utilizzano solo acqua e semola di grano duro maremmano.
– Non sapevo che in Maremma si coltivasse grano duro, – chiedo a Laura, la figlia di Dino, la ragazza che ho conosciuto ieri sera.
– È molto buono, perché viene da terreni poco sfruttati…
– Così fate una pasta tutta toscana?
– Un tempo usavamo grano duro canadese, – spiega il padre. – Ma questo nostrano è ancora migliore…
Una vera pasta di casa, fatta in famiglia.

Più tardi, Davide e io usciamo dal pastificio e passeggiamo nel borgo. Forse non è il più bello del mondo, ma certo è suggestivo, circondato di colline e raccolto attorno al suo castello. La struttura è quella medievale classica, con le case strette attorno alla fortezza.
Ciò che sorprende, qui a Lari, sono le dimensioni: tutto è ridotto allo spazio di pochi metri e le prime abitazioni sembrano toccare i mattoni rossi delle mura: un imponente bastione verticale che riflette la luce calda del mattino.
Un caffè e siamo di nuovo in via dei Pastifici, nel vivo della produzione. Gli spaghettini escono dalla trafila in bronzo come ciocche di capelli d’angelo. Dino, Laura, suo fratello Luca e tutti i membri della famiglia li maneggiano come se li stessero accarezzando. Fanno così tutti i giorni, da quasi un secolo: padroni e dipendenti di se stessi, a impastare, trafilare, essiccare e impacchettare pasta.

Il giallo è il colore della famiglia: una divisa, un packaging, un modo di pensare. A me ricorda il sole e il grano; Dino mi spiega invece che è il colore della Toscana, il più distante possibile dal blu dei fogli dove si metteva la pasta quando era venduta sfusa. Il giallo è diventato molto più di un colore per questa famiglia di Lari: una sorta di abito mentale, uno stato d’animo da indossare come un abito su misura.

Oltre agli spaghettini, producono pochi formati, tutti trafilati a bronzo. Ci sono le penne lisce classiche, i maccheroni, gli spaghetti e i fusilli di Pisa, gli ultimi arrivati. Nascono da una ricerca d’archivio e dalla scoperta che nel 1284 un fornaio di Pisa aveva assunto un operaio con la qualifica di pastaio. Non si credeva che nella Toscana del Medio Evo ci fossero pastai. Quello era un lavoro tipico del sud, diffuso in Campania e nella Puglia di Svevi e Angioini. Aver ritrovato un pezzo inatteso della propria storia aveva suggerito a Dino e alla sua famiglia la creazione di un nuovo formato: un omaggio a Pisa e alla Toscana della pasta.
Il fusillo aveva già la forma della torre; loro l’hanno realizzato con sette eliche e un piccolo solco che corre tutt’intorno, come il camminamento del monumento. Una riga che in realtà serve anche a trattenere il sugo e a bilanciare la cottura tra l’esterno e l’interno del fusillo.

Gli spaghettini continuano a uscire dalla trafila e a ondeggiare lievi nell’aria. I pastai di Lari non li tagliano, ma li appoggiano sulle aste di legno come panni al sole. Ogni bacco porta cinque chili di pasta, che vengono poi trasferiti al piano superiore per l’essicazione.
Laura ci mostra questa fase delicata della lavorazione, che per molti aspetti è il cuore della produzione artigianale. Mentre la pasta sale con un montacarichi, noi usiamo una stretta scala. A ogni rampa, la temperatura aumenta fino a raggiungere i trenta gradi. Siamo sudati, l’obiettivo della telecamera bagnato. Trenta gradi sono molti per gli esseri umani, pochissimi per la pasta. L’industria arriva a quasi cento!
«Servono cinquanta ore per un’essiccazione naturale che mantenga intatte le proprietà e il gusto del grano», spiega Davide alla macchina da presa. «Ci vuole tempo per fare le cose per bene, ma poi la differenza si sente tutta nel piatto».

Una volta pronti per il confezionamento, questi spaghettini artigianali non vengono tagliati, ma restano lunghi, semplicemente piegati. Chiedo a Laura e a suo fratello Luca se ci sia un motivo particolare, legato al gusto.
– Siamo toscani, – rispondono loro. – Se tutti li tagliano, noi li pieghiamo. Così la gente capisce che non c’è un’industria dietro…

Dopo pranzo, usciamo per completare le riprese in esterni. Entriamo nel castello dei Vicari, che in questo momento è un po’ ammaccato perché il vento dei giorni scorsi ha divelto una parte del tetto. Saliamo ugualmente e filmiamo Davide che passeggia lungo le mura osservando il paesaggio delle colline pisane, dal mare fino a Volterra. All’interno del cortile ci sono i simboli dei Vicari fiorentini che si sono succeduti dal 1406. Mi fanno notare come nel tempo siano cambiati i fregi e le decorazioni. Più sono semplici e più sono antichi. È una questione di comunicazione: lo stemma era la bandiera del popolo. In battaglia, la divisa segnava lo schieramento di campo: la vittoria dalla sconfitta, la vita dalla morte. Con l’andare del tempo, la politica ha arricchito gli stemmi di scritte, simboli araldici e motti.
Eleganze da salotto, ben lucidate e senza polvere di battaglia.

– Guarda: quella è la torre di Pisa, – mi dice Luca, indicandomi un punto appena più chiaro che si distingue all’orizzonte. Osservo la celebre torre che ha ispirato il nuovo fusillo, laggiù vicino al mare. A occhio nudo la immagino soltanto. Poi mi volto verso l’interno, oltre Volterra. Immagino anche Firenze e Siena, al di là delle coline, e mi viene in mente la leggenda di quei due cavalieri che al canto del gallo erano partiti dalle rispettive mura per incontrarsi nel punto che sarebbe diventato la linea di confine.
Domani saremo proprio nel Chianti, la linea di confine; la terra del gallo nero, tenuto al buio e senza cibo dai fiorentini per cantare prima dell’alba.

Ma questa è un’altra storia. Adesso è tempo di andare, verso nuovi paesi e paesaggi. Venite a Lari, sulle colline pisane; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Le fortezze della Valle.

Oggi siamo in Valle d’Aosta. Il paese è Arnad, il paesaggio quello della Bassa Valle. Le coordinate geografiche sono 45°38′ Nord e 7°43′ Est.

L’autostrada sale verso le montagne dopo aver superato la pianura. La notte è scura, velata di pioggia mista a nebbia. Percorro questa moderna Via delle Gallie per entrare in Valle d’Aosta, attraversando una gola stretta che è da sempre passaggio obbligato di merci, genti e armate. Da una parte il Nord, dall’altra il Sud. Il resto è montagna: boschi, rocce, pareti verticali. Alzo lo sguardo e intravedo il Forte di Bard, che affiora dalle nubi come il becco di un’aquila. È un luogo affascinante, un’architettura militare unica al mondo.

Sono felice che il tempo sia brutto e che domani, durante le riprese, pioverà. Credo che l’esperienza di visita al forte sia ancora più intensa quando la temperatura si abbassa e il vento s’infrange sui bastioni come il mare su una scogliera.
Costruita nella notte dei tempi, la fortezza è diventata sabauda nel corso del XIII secolo. I mastri di casa Savoia l’hanno continuamente migliorata nelle strutture e i generali nella potenza di fuoco. Il 14 maggio 1800, l’armata di Napoleone cercò di superarla per sorprendere gli austro-piemontesi accampati oltre le Alpi. Giorni di combattimenti e bordate di cannonate. I Francesi spingevano, ma la fortezza resisteva. Provarono con l’inganno, foderando di sacco le ruote dei carri e spargendo paglia sulle vie del borgo. Tutto inutile: solo l’assedio evitò la sconfitta di Napoleone e costrinse alla resa – con l’onore delle armi – gli uomini del Forte.
Napoleone lo chiamò le vilain castel de Bard e lo fece radere al suolo. Una trentina d’anni dopo, Carlo Felice lo ricostruì come lo vediamo oggi, con tre grandi edifici fortificati e un sistema di bastioni che dal fiume sale sulla rocca.

Oggi, il Forte di Bard è un museo vivo, sede permanente di grandi mostre, attività culturali ed eventi. Gabriele, il direttore, ci accoglie come a casa. Davide, sedia in spalla, percorre i vicoli del borgo, attraversa il fiume e risale la strada che affianca le mura. Ciuffi d’erba bagnata e rocce viscide di pioggia rendono eleganti gli spazi tra i tornanti.
Ogni tanto Davide prende fiato, posa la sedia e getta lo sguardo oltre le feritoie. Poi riparte e scompare nella nebbia per riaffiorare all’ingresso dell’Opera Carlo Alberto, la struttura superiore del Forte.
Infine chiude l’ombrello ed entra in una galleria di stanze morbidamente illuminate. Gabriele è sempre accanto a lui e gli presenta le immagini di Josef Koudelka, il maestro del reportage. Una grande mostra che documenta oltre vent’anni di viaggi in centinaia di siti archeologici: un vero e proprio inseguimento ai frammenti della Storia. Dalle Colonne d’Ercole ai Dardanelli, dal Medio Oriente al Nordafrica, l’occhio di Koudelka ha esplorato tutti i paesi del Mediterraneo cercando la solitudine della bellezza. Immagini orizzontali di grande formato che ritraggono le nostre radici e che nel Forte di Bard trovano il loro ambiente ideale: pietre su pietre, culture che si cercano e dialogano.

– È una mostra bellissima, – dico a Gabriele.
Lui sorride, soddisfatto. Capisco che oggi il Forte di Bard sia chiamato a combattere un’altra battaglia di difesa, a colpi d’immagine e comunicazione.
All’ombra del Forte, nella piana del fondovalle, si trova invece l’azienda di Marilena, l’altra protagonista della puntata. Un luogo di eccellenze e d’accoglienza, con un grande e curatissimo negozio di specialità valdostane, un laboratorio di norcineria, un frantoio di noci, un ristorante. Un sistema articolato di edifici che – come il Forte – difende e valorizza la valle, la sua storia e le sue tradizioni.

Il marito di Marilena era stato un grande produttore del lardo di Arnad, una specialità che in questo paese vanta una tradizione secolare. È infatti documentato che già alla metà del Settecento, ad Arnad erano in attività quattro grandi doils, i recipienti in legno di castagno dove il lardo matura immerso in una salamoia di acqua, sale, spezie, aromi naturali ed erbe aromatiche di montagna.
– Per anni, gli ispettori hanno cercato di impedirci l’uso delle vasche in legno, – mi dice Marilena, rievocando le battaglie condotte dal marito e proseguite da lei. Strenue resistenze di artigiani del gusto, vinte con l’onore delle armi. Il lardo di Arnad è oggi un prodotto Dop e l’uso delle vasche in legno è parte integrante del disciplinare.

Dopo pranzo ci spostiamo nel frantoio per documentare un’altra specialità della valle, antica tradizione di cui la famiglia di Marilena è depositaria da almeno tre generazioni. Si tratta dell’olio di noci, una delizia poco conosciuta in un paese come l’Italia dove l’olivo è diffuso quasi ovunque.
Su queste montagne è invece sostituito dal noce, vegliardo fusto al centro della comunità. La produzione di olio di noci è molto limitata. Si comincia con la raccolta, un’attività che coinvolge tutta la famiglia e richiama gente da fuori; occasione di lavoro, incontro e festa della terra, come una vendemmia.

Poi le noci vengono selezionate e aperte con un martelletto, facendo attenzione a non rompere i gherigli. Davide partecipa alle operazioni di battitura e siede al tavolo di fronte a Marilena. La imita mantenendo viva la concentrazione sul gesto, ripetitivo e mai uguale. Un colpo secco, vibrato con la giusta intensità, in modo che il guscio si spacchi a metà, senza frantumarsi.
Poi le noci si lasciano riposare all’aria sui graticci. Scatto alcune fotografie inseguendo i riflessi della luce. Dorature che sembrano scintille d’intelligenza, prodotte da questi piccoli cervelli in miniatura.

Successivamente le noci vengono schiacciate lentamente con una macina in pietra e spremute a freddo, con un torchio di legno. Dopo qualche giro di vite, il beccuccio della canalina s’inumidisce e comincia a scorrere un filo d’olio, delicato e gustoso. Davide lo intercetta con un dito e lo porta alle labbra.
Al termine della spremitura, sul fondo del torchio rimane una pastella di noci che è come un croccante, da tagliare e spezzare in tanti biscotti. Il premio per tutti i bambini che hanno dato una mano. L’olio di noci deve però riposare ancora un paio di settimane, prima di essere filtrato e imbottigliato.

– Io lo trovo fantastico sulla carne, sul pesce, sulle verdure e sui formaggi, – esclama Davide rivolto alla telecamera, – perché rimane sempre quel meraviglioso retrogusto di noci!
L’olio che Marilena produce ancora oggi come suo padre e suo nonno, è un alimento molto salutare, ricco di acidi grassi essenziali Omega 3 e Omega 6. Un vero dono della natura, che l’uomo – anzi, la donna – ha saputo custodire e valorizzare.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Valle d’Aosta, ad Arnad e nel Forte di Bard, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Le carni di Sassello.

Oggi siamo in Liguria. Il paese è Sassello, il paesaggio il Parco Naturale del Beigua. Le coordinate geografiche sono 44°28’ Nord e 8°29’ Est.

Davide parte da Milano, io da Genova. Incontrarci a Sassello è un po’ come per gli agenti segreti vedersi a metà di un ponte, in territorio neutro. Sassello non è solo un luogo geografico, ma uno spazio mentale. Il punto d’equilibrio tra due modi d’intendere la vita: da un lato il Piemonte, dall’altro la Liguria. Allunghi un piede e ti perdi nella pianura, arretri di un passo e rotoli in mare.
Un territorio che nella storia ha segnato il confine tra regioni che i potenti si contendevano e dividevano mentre i contadini, gli artigiani e i mercanti univano, scambiandosi cibi, dialetti e canti: incontrandosi e mescolandosi tra loro.

La piazza della chiesa è il centro del borgo, ma il vero cuore di Sassello è il punto dove la strada che sale diventa quella che scende. In questo breve slargo, i motociclisti si fermano a tirare il fiato dopo chilometri di curve, i ciclisti bevono alla fonte, i turisti entrano nel bar degli amaretti e si siedono con il giornale in mano. Un piccolo mondo antico, una specie di torre d’avvistamento. Quelli proprio bravi, a Sassello, riescono a viaggiare stando fermi. Gli basta guardare.

Giovanni, il protagonista della puntata, mi viene incontro proprio in quel punto dove tutto scorre davanti alla sua antica macelleria, in attività dai primi del Novecento. È un uomo grande e generoso; credo di non averlo mai visto senza sorriso. Esco dall’auto e chiudo il giaccone, infilo il cappello e i guanti. Lui mi sorride, con la camicia aperta sbottonata.
Giovanni è un amico di cui mi aveva parlato Giorgio, uno dei primi artigiani del gusto della nostra famiglia di Paesi, paesaggi. Mi piace pensare a Giorgio come al re del Castelmagno, il nobile erborinato di sangue blu, principe dei formaggi italiani. Giorgio è un uomo d’altri tempi; con la stessa lievità riesce ad arrampicarsi sugli alpeggi e a scivolare nelle vie di città, tenere vivo il passato osservando attentamente il futuro.

Dopo le presentazioni, Giovanni e io ci eravamo conosciuti a luglio, nel bosco. Ogni anno, lui organizza con la sua famiglia una grande festa druidica, una specie di ringraziamento collettivo all’estate. Pochi gli ingredienti, tutti scelti con cura: il bosco, gli amici, una brace immortale e carne eccellente. Chi può porta qualcosa, anche se Giovanni ha già portato tutto.

Quando gli avevo telefonato per proporgli la puntata televisiva sulla sua attività e i suoi luoghi, avevamo anche ricordato la festa di luglio e il Beigua d’estate.
– Ti ricordi che pioggia?
– Un diluvio! Avevi steso ettari di teli per proteggere i tavoli…
– Però che bello…
– Bellissimo…
– Alla fine era venuto anche il sole!
– No, il sole c’era già. Anche quando pioveva…
Sempre al telefono avevamo programmato la puntata e le riprese, scegliendo i luoghi migliori da offrire ai passi di Davide e alla telecamera di Massimo. Avevamo anche parlato del tempo, sperando che ci fossero freddo e neve, perché il paesaggio mansueto del Sassello diventa selvaggio quando si risveglia e obbliga a soffrire. È come se la natura riscoprisse di colpo la sua forza e stringesse le persone, le piante e gli animali in una morsa, come l’abbraccio di un gigante.
– Allora speriamo che nevichi, – avevo detto io.
– Nevicherà.

Non possiamo lamentarci. Ha nevicato e il paesaggio è di un bianco abbagliante. Il freddo pungente. Scegliamo un grande prato e seguiamo Davide che avanza come un cosacco affondando i passi, sotto il peso della sedia. Si accomoda sotto lo scheletro di un albero in controluce e si sente come a casa. Sullo sfondo la Chiesa della Santissima Trinità: l’abside grigio, il tetto, il campanile.
Poi saliamo sul fuoristrada e raggiungiamo la cima del monte, per osservare dall’alto il paesaggio che dal mare rimbalza verso la pianura. Oltre cento chilometri quadrati di boschi e pascoli, con meno di duemila abitanti. Si intuiscono i campi e s’intravedono le stalle di piccoli allevamenti familiari con pochi capi di vacche di razza Piemontese. Infine, con la telecamera sazia di belle immagini torniamo in paese, tra le case con le grondaie ghiacciate, i palazzi storici e le chiese ben affrescate.

Riprendiamo Giovanni che sfila davanti alla Chiesa dell’Immacolata, supera Palazzo Doria e s’incammina verso la Chiesa di San Giovanni Battista. L’edificio risale al Mille e conserva opere di pregio, tra cui una scultura del Maragliano, il maestro genovese che nella Liguria del Seicento dava vita al legno come Giacomo Serpotta – nella Sicilia del Barocco – faceva con lo stucco.

Nel frattempo, Giorgio è sceso da Castelmagno e ci ha raggiunto a Sassello per condividere l’esperienza delle riprese. Si è impadronito del laboratorio di Giovanni e lo sta trasformando davanti all’occhio della telecamera. Le piastrelle delle pareti scompaiono dietro file di prosciutti e salumi. Il banco di metallo diventa una tavola imbandita, con ariste, capocolli, guanciali, salsicce e mortai colmi di spezie e odori, poi aglio, sale, pinoli, agrumi, taglieri di legno e coltelli ben affilati. Accendiamo le luci e tutto prende vita.

Giovanni si avvicina a Davide, gli offre il grembiule e gli porge una lama. Per Davide inizia la parte più divertente e interessante della giornata, quella in cui riesce attraverso la condivisione del lavoro a entrare in sintonia con il protagonista della puntata, imitarlo mentre trasforma la materia e naturalmente se stesso.
Oggi Davide conoscerà Giovanni, preparando con lui la pancetta arrotolata e la testa in cassetta. Sono questi i prodotti che abbiamo scelto per parlare del nostro amico, del suo legame con il territorio e la tradizione, ma anche del suo insopprimibile bisogno di innovare. Rendere nuovo l’esistente.

Iniziamo con la pancetta arrotolata, il prodotto forse più tipico e inimitabile di Giovanni. La sua pancetta è preparata come un prosciutto, sapientemente salata in umido, arrotolata con l’aggiunta di aglio di Vessalico ed erbe aromatiche dei boschi del Beigua, infine cotta in forno. Eccellente! Parola di Davide.

L’altro prodotto che caratterizza Giovanni è la testa in cassetta, quella che spesso chiamiamo soppressata. È un prodotto tipico dell’entroterra ligure, dove la salsedine si mescola alla nebbia. Nasce dalla necessità di non buttare via niente del maiale e usare gli scarti come ultimo gesto di gratitudine. Allora si prendono le teste e i resti delle lavorazioni, si trita il tutto in punta di coltello, si impasta a mano e si concia per bene. Da noi, per tradizione, si aggiungono i pinoli. Giovanni ha preparato per tutta la vita un’ottima testa in cassetta con i pinoli. Come la faceva suo padre, il maestro di quando era ragazzo, che a sua volta l’aveva imparata dal macellaio Toso, il suo maestro di Sassello.

Ma un giorno ebbe un’intuizione e iniziò a sperimentare. Invece dei pinoli aggiunse le
mele, scorze di limone e arance Pernambuco, oppure chinotto di Savona. Gli ingredienti adesso sono tutti lì, ben disposti sul banco. Davide e Giovanni li prendono e li lavorano con le carni, poi mettono l’impasto nella forma e lo compattano sotto il coperchio che lo schiaccia come una pressa. La soppressata è fatta.
Qualche giorno di riposo e potrà essere mangiata.
Giovanni però ha promesso di metterla da parte per dividerla con noi.
A luglio, nel bosco.

Adesso invece è tempo di andare, ci aspettano nuovi paesi e nuovi paesaggi. Venite a Sassello, nel Parco Naturale del Beigua; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Le botti con duecento anni di storia.

Oggi siamo in Piemonte. Il paese è Castell’Alfero, il paesaggio la Valle Versa. Le coordinate geografiche sono 44°58’ Nord e 8°12’ Est.

Questa è una regione di morbide colline che sembrano lievi sussulti della pianura. Si esce ad Asti e si prosegue verso nord lungo una strada dritta e rettilinea. Poi le prime case, un cartello che indica il castello, la svolta a sinistra e una manciata di tornanti in salita per raggiungere il centro storico di Castell’Alfero, un borgo rialzato e adagiato su una terrazza naturale. La pianura si stende in basso, con le colline dei vigneti che si rincorrono da un podere all’altro; sullo sfondo la cerchia delle Alpi.

Osserviamo il paesaggio da un punto di vista privilegiato, che permette di vedere le cose con chiarezza. Tutto sembra racchiuso in un plastico talmente ben costruito da sembrare reale. Anche la Storia acquista una prospettiva viva. Scopro infatti che a Castell’Alfero è nato alla fine del ‘700 Giovan Battista de Rolandis, un giovane patriota la cui famiglia era già radicata nel territorio da secoli. Una casata nobile, di rango e di spirito. Tanto per dire, il padre di Giovan Battista si era laureato in medicina a Parigi e in Valle Versa svolgeva gratuitamente il mestiere di medico dei poveri. In certa misura, redistribuiva la ricchezza. Il figlio Giovan Battista iniziò la sua formazione presso l’Accademia Militare di Torino, poi la completò nel Seminario di Asti, un luogo frequentato da personaggi come don Giovanni Bosco e Benedetto Cottolengo.

De Rolandis è stato uno dei patrioti che hanno ideato il nostro tricolore: la bandiera che riprendeva gli ideali della Rivoluzione Francese ma che se ne discostava per rivendicare l’unicità dell’Italia e ribellarsi al suo generale Napoleone, colpevole di non aver sostenuto l’insurrezione del 16 settembre 1794.

Dall’alto del castello, Massimo inquadra il bianco delle nuvole, gonfie di libertà, e il verde della speranza custodita nei boschi e nei vigneti. L’oste del castello ci raggiunge nel cortile con una bottiglia di rosso; la stappa, la versa e mentre Massimo completa il filmato della bandiera, Davide brinda con Eugenio, il mastro bottaio protagonista della puntata.

Eugenio mi indica i tanti paesi della valle. In ogni villaggio c’era almeno un bottaio fino alla metà del Novecento. Adesso è rimasto solo lui, insieme al figlio Mauro. Sono la sesta e la settima generazione di una famiglia di mastri bottai da oltre due secoli. Un mestiere antico, dove la manualità dell’artigiano si fonde con la conoscenza del botanico e la sensibilità del vignaiolo. Un tempo le botti erano semplici contenitori, oggi sono veri e propri mondi, dove i buoni vini invecchiano e diventano grandi.

Sempre dall’alto, Eugenio mi indica una distesa di ordinate cataste di legna. Sono le assi che diventeranno le doghe delle botti. Restano lì, nel suo deposito, a maturare per anni all’aria aperta, in modo da acquisire aromi e perdere tannini.
Saliamo in macchina ed Eugenio mi spiega come nasce una botte, prima ancora che le doghe vengano tagliate.
– La qualità del legno è fondamentale, – dice.
– Quale legno? – domando.
– Rovere: Quercus peduncolata e Quercus sessili
– Ah… – borbotto, fingendo di capire. Poi, come assillato dal mito della filiera corta domando: – Vengono dai boschi della zona?
– No, – mi sorride Eugenio. – Dalla Francia!
– Ah… – borbotto, mentre camminiamo tra le torri di legna.

Le assi sono ordinatamente disposte e incrociate, da terra fino a un’altezza di alcuni metri. Sembrano i palazzi di una città. Passeggiare tra questi viali stretti mi ricorda il Cretto di Gibellina. Un assistente di Eugenio ci raggiunge con il montacarichi. Massimo apre il cavalletto e sale sul pianale con la telecamera. Io mi aggrego per scattare alcune immagini dall’alto. Quando scendiamo, Eugenio completa il racconto della legna prima che diventi botte.
– Erano i primi anni Ottanta, – dice, – quando con mia moglie mi sono avventurato in Francia alla ricerca dei merrendier, i tagliatori di legna specializzati nella produzione di barrique.
Troncais, Allier, Nevers, Cher sono i nomi delle foreste secolari che si estendono nel centro della Francia. Ogni regione boschiva presenta caratteristiche specifiche e il merrendier le conosce tutte alla perfezione. Ma devono conoscerle anche il bottaio e il vignaiolo, perché ogni legno possiede caratteri che trasmetterà al vino.

– Ah, les Italiennes, – sospira la moglie di Eugenio, ricordando quegli anni spesi a cercare di stabilire un contatto con i diffidenti francesi, eredi di Napoleone. Due tricolori a confronto.
– Oggi ci rispettano, – dice infine Eugenio. – Lavoriamo insieme da trent’anni e siamo garanzia di qualità gli uni per gli altri.
Sorride e lascia intendere che non è stato facile. Però quando gli chiedo perché vada proprio in Francia a prendere il legno, i suoi occhi si riempiono di ammirazione. Mi spiega che in quelle foreste si trova il rovere migliore, che viene lasciato invecchiare a lungo e tagliato ad arte solo nel momento giusto. Le querce salgono dritte come fusi alla ricerca della luce e vengono tagliate solo quando hanno almeno centosessant’anni. L’età è garanzia di stabilità, robustezza e ricchezza di aromi.

Eugenio si avvicina con Davide a una pila di assi. Con il temperino stacca una scheggia di rovere, la porta alla bocca e la mastica. Non credo ai miei occhi. Davide lo imita.
– È dolce… – dice, gustando il legno crudo.
– Assaggia questo, – gli suggerisce Eugenio, spostandosi davanti a una pila di assi più grandi.
– È più amaro! – esclama Davide. – Ci sono sentori di spezie, tabacco, torba…
Gli avevo visto mangiare di tutto: mai del legno. Il viaggio prosegue nel laboratorio, dove quattro operai stanno lavorando all’interno di una grande botte da quasi cento ettolitri. Le doghe erano state piegate con un sistema esclusivo ad acqua calda e vapore messo a punto proprio da Eugenio e suo figlio. Un metodo simile a quello che usavano gli Egizi nell’antichità e l’ebanista Michael Thonet nell’Ottocento per curvare le liste di faggio delle sue sedie. Adesso gli operai stanno inserendo il fondo della botte e lo incastrano con gesti precisi e ampi, le mazze che battono alternativamente sui cerchi e sulle doghe, all’interno e all’esterno della grande botte. Una specie di casa, senza spigoli vivi.

Eugenio e Mauro ci guidano infine nella zona della tostatura. Le doghe della barrique vengono tagliate leggermente più larghe al centro e strette in testa, poi accostate e assemblate in modo che combacino perfettamente. Infine vengono chiuse a un’estremità e la botte aperta, con le doghe ancora dritte, viene appoggiata su un braciere dove arde un fuoco vivo di legna di rovere. Le botti luccicano nell’oscurità con le fiamme che s’intravedono tra le doghe. Siamo in un luogo magico, una specie di forgia impregnata dei profumi del pane, dei biscotti, dei dolci.

Il calore piega le doghe senza spezzarle. A poco a poco, mentre il legno cede, una stringa di ferro viene posizionata sull’estremità aperta della botte e progressivamente serrata; poi si inseriscono i cerchi e infine, con la mazza, si batte l’opera alla ricerca della forma ideale. Un colpo al cerchio e uno alla botte, finché tutto nella barrique combacia e s’incastra alla perfezione.

Eugenio lavora con maestria. Gli operai lo osservano. Davide chiede se può provare e comincia a battere anche lui, accarezzando con la mazza il legno e i ferri di una giovane barrique. Il pastore tedesco di casa li osserva quieto, accucciato a terra: sembrano due percussionisti. Massimo, che ama le percussioni ed è segretamente un musicista, spegne la telecamera, raccoglie un legno da terra e comincia a battere sulle botti, unendo i suoi ritmi a quelli di Davide ed Eugenio.
Una specie di concerto, che segna il battere e il levare del tempo.

Tempo di andare, naturalmente, verso nuovi paesi e nuovi paesaggi.
Venite a Castell’Alfero, in Valle Versa; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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