Archive for gennaio, 2015

L’ascia del marinaio.

Oggi siamo in Sardegna. Il paese è La Maddalena, il paesaggio – naturalmente – l’Arcipelago della Maddalena. Le coordinate geografiche sono 41°12’ Nord e 9°24’ Est.

Atterro ad Alghero nel pomeriggio, noleggio una macchina e mi dirigo verso la Gallura. Aria di casa. Non lontano da qui – nell’interno del Logudoro Meilogu – è nato mio padre e ancora vive la mia famiglia di allevatori e agricoltori.
Adesso siamo diretti alla Maddalena, dove documenteremo l’attività di uno degli ultimi mastri d’ascia. Anche questa è casa: il litorale che da Stintino corre fino a Olbia, è una zona che per anni ho frequentato come velista, come subacqueo, come semplice turista, innamorato del mare e della ragazza con le ginocchia sbucciate con cui viaggiavo.
Sarebbe diventata mia moglie, la compagna di tutta la vita.

Dirigo la prua della vettura verso nord, ignorando le indicazioni di strade a scorrimento veloce. Proseguo controvento: oggi il Maestrale soffia gagliardo. A Porto Torres accosto a dritta e mi tuffo nei ricordi. Acqua a sinistra, terra a destra e davanti una strada panoramica tutta curve che mi pare una perfetta metafora della vita.
Quando cala il buio, la strada diventa però un tracciato impegnativo: impossibile da seguire senza abbaglianti. Non la ricordavo così priva di segnalazioni, lampioni e catarifrangenti ai lati della via. La situazione mi riporta al presente e alla necessità di stare sempre all’erta. Come in barca, quando il vento rinforza all’improvviso e devi ridurre la vela, correggere la rotta e il passo.

L’attualità diventa cupa e tragica pochi minuti dopo Santa Teresa, quando la radio italiana che stavo ascoltando diventa France Enter. Le frequenze sono canali dagli argini fragili. Il segnale potente dell’emittente francese s’infila nella macchina e mi costringe a vivere nuovi dettagli della vicenda di Charlie Ebdo. L’attentato delle ore precedenti, la fuga, il supermercato, la tipografia, il bosco. Le voci degli opinionisti si mescolano a quelle dei compagni di scuola dei terroristi e delle vittime, conoscenti degli ostaggi e gente di passaggio. Un fronte sonoro compatto e buio: come il mare, la strada, la terra tutt’intorno. È notte.

L’indomani mattina, Davide e io ci incontriamo al porto di Palau, pronti a salpare con il traghetto delle sette e trenta. Il vento teso è girato a ovest e il canale è spazzato dalle onde. Racconto a Davide di quando c’era la base militare con i sommergibili atomici: la nave appoggio e i periscopi dei due sottomarini che affioravano sopra il pelo d’acqua.
Seguiamo con lo sguardo i dettagli di un paesaggio tra i più suggestivi del mondo. Nell’Arcipelago, le acque e le isole si intrecciano e formano trame che sembrano i ricami di un merletto: ogni punto è una spiaggia, una laguna, una scogliera. Orizzonti larghi e distese di vento.

Gioacchino, il protagonista della puntata, ci raggiunge al caffè del porto. Come scrive Simenon, c’è sempre un caffè in ogni porto e una Marie che serve ai tavoli. Ci sediamo e ordiniamo. Gioacchino è uno degli ultimi mastri d’ascia e insieme al fratello ha costruito centinaia di barche: a vela e motore, da pesca, da regata e da diporto.
Sono ancora tutte lì, che navigano nelle acque del Mediterraneo: figlie in splendida forma. Barche eleganti, come signore del mare. Persone capaci di vivere in eterno.
Negli ultimi trent’anni, però, la nautica si è interamente convertita alla plastica. Sono convinto che si tornerà un giorno a ordinare scafi in legno ai mastri d’ascia, come abiti confezionati su misura dai sarti. Intanto, si vive di restauri e di manutenzioni.

In cantiere, Gioacchino ci mostra un motoscafo che sta riportando a legno nudo per ridipingerlo. La barca ha una trentina d’anni, ma è perfetta, come fosse stata costruita ieri. Davide prende la levigatrice e insieme a Gioacchino carteggia la fiancata, scomparendo in una nuvola di polvere di legno, con i granelli che saltellano nell’aria illuminati dalla luce di taglio. Una bella inquadratura.
Sulla banchina c’è invece una pilotina che è stata completamente restaurata ed è pronta per tornare a navigare, così come un gozzo Pexino a vela e motore, costruito negli anni Settanta a Santa Margherita Ligure da Agostino Moltedo, un altro celebre mastro d’ascia.

Il cantiere di Gioacchino ha restaurato prestigiose imbarcazioni d’epoca come l’Aquilone, uno degli ultimi leudi genovesi – tipici scafi liguri a vela latina per il trasporto delle merci – costruito nel 1912 a Sestri Levante; oppure la gloriosa e vincente imbarcazione da regata Dalgra III, realizzata da Baglietto nel 1953.

Negli ultimi anni è ripreso l’interesse per la vela latina e nel porticciolo dell’isola sono ormeggiati numerosi gozzi maddalenini costruiti da Gioacchino e dalla sua famiglia.
Davide passeggia sul pontile, tra gli scafi in agitazione per la risacca della mareggiata. I parabordi si sfiorano, le cime stridono. Sono bellissimi, con le antenne che incrociano gli alberi e riposano verso prua, come lance che guardano a terra.

Torniamo in cantiere per seguire alcune fasi di lavorazione. Chicco, il nipote di Gioacchino, prende una vecchia ascia e l’affila sulla mola. Sta preparando lo strumento base del lavoro di una volta. Gioacchino stesso, quando seguiva le orme del padre, costruiva le barche con l’ascia in mano. Il lavoro iniziava nel bosco, osservando lo scafo che si nascondeva nel tronco dell’albero. Poi proseguiva in cantiere, utilizzando strumenti quasi rudimentali.

– Saresti ancora capace? – gli domanda Davide.
– Se vuoi, ti faccio vedere, – risponde Gioacchino con un sorriso.

Chicco gli passa l’ascia e lui, davanti alla telecamera, ci mostra come si faceva nel secolo scorso, cioè una manciata di anni fa. Mi aspetto che il mastro vibri colpi di scure violenti e precisi nell’aria per dividere blocchi di legno. Invece, Gioacchino mette nella morsa un’ampia tavola destinata a diventare uno specchio di poppa; poi, seguendo una linea curva tracciata a mano con la matita, scalza piccole schegge di legno con movimenti corti e continui della lama.
Ci regala un incavo che una volta ben rifinito diventerà l’incastro per l’ultima coppia di ordinate.

– Si tagliava la legna come i boscaioli, – continua Gioacchino, – ma poi il resto del lavoro era un’opera di cesello.

La costruzione di una barca è un grande lavoro di cesello. Occorre tempo, ma una volta fatta, una buona barca in legno è come una casa: calda, sicura e accogliente. Per sempre.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Sardegna, nell’Arcipelago della Maddalena, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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La bottega del rame.

Oggi siamo in Trentino. Il paese è Ravina di Trento, il paesaggio quello della Val Gola.

Le coordinate geografiche sono 46°2’ Nord e 11°6’ Est.

Accendo il motore della macchina e lascio che si scaldi per bene. L’interno è appannato, fuori è tutto bianco. Non c’è neve, solo ghiaccio. Il cielo è già azzurro. Sarà un’altra di quelle giornate limpide che solo l’inverno in montagna sa regalare.

Quando infine ci mettiamo in moto e lasciamo Trento, siamo già arrivati. Ravina è infatti alle porte della città, dove gli ultimi vigneti lasciano spazio ai boschi. Un angolo di valle sovrastato dalla parete verticale del monte Palon, una costola del Bondone: oltre duemila metri di muro roccioso. La vetta è già difficile da raggiungere con lo sguardo; impresa impossibile per chi soffre di cervicale.

La strada s’inerpica lungo il rio Gola, il piccolo fiume che era esondato durante l’alluvione del 1942. Un rivo da niente, che si era improvvisamente gonfiato fino a esplodere, travolgendo il borgo e la sua quiete. I vecchi raccontano di una violenza inaudita, capace di sradicare gli alberi e sfondare i muri delle case. Adesso il fiume è un mormorio appena accennato che affiora dal piede della montagna.

Al termine della strada ci sono alcune case riunite attorno a un giardino. Sul prato, la macina in pietra di un vecchio mulino. Durante l’alluvione era rotolata a valle. Pierino, il protagonista della puntata, l’aveva scavata dai detriti e messa lì, davanti alla sua bottega di mastro cesellatore.

Gli altri edifici sono le abitazioni della famiglia, cresciuta man mano attorno al rame e all’arte del cesellare. Un piccolo mondo che abbraccia ormai tre generazioni di mastri ramai. Il lavoro dell’artigiano si esprime attraverso la pratica di bottega, il luogo dove si impara e si insegna, dove il lavoro si replica e prosegue nel tempo, evolvendo in maniera impercettibile mentre la materia si modella e le persone maturano. Una bottega con un solo artigiano è senza speranza. Nel lavoro solitario del maestro vedi un mondo che scompare. Negli sguardi degli allievi cogli invece il bagliore della prospettiva: ogni gesto diventa un’eredità, un sapere da condividere, che passa di mano in mano.

Oggi, la bottega di Pierino è una fucina di talenti. Ci sono i figli Fiorenzo, Stefano e Marina, i nipoti Scimone e Andrea, le nuore Claudia e Roberta, il genero Danilo. Una grande famiglia, fusa nel rame e stagnata nel fuoco vivo. Tutti i giorni insieme, a battere, sbalzare e cesellare la materia che ha segnato la loro vita.

Pierino si avvicina a Davide e gli racconta degli inizi, quando nel ’49 andava in fonderia e imparava le basi del mestiere.

– Ricordo l’atmosfera, – dice a bassa voce, strofinandosi gli occhi. – L’odore acre del carbone, il calore del forno e della forgia, il battere del maglio e il ritmo dei martelli e dei ceselli.

Poi, alla metà degli anni ’50 era entrato nella bottega dello zio, che già faceva il ramaio.

– Era bravo, – continua Pierino. – Gli ho rubato il mestiere, osservando i suoi gesti e imparando le tecniche. A lui devo l’arguzia nel preparare i ferri: ceselli, punteruoli e incudini per rifinire i manufatti.

Infine – ma in realtà sarebbe l’inizio – nel ’58 recuperò questo vecchio edificio diroccato sulle sponde del rio Gola, mise in giardino la macina del mulino spazzato dall’alluvione e cominciò la sua attività.

– L’avevo chiamata la Bottega dei Mastri Cesellatori.
– Un bel nome, – dice Davide. – Il nome giusto.

Negli anni sessanta e settanta c’era molto lavoro per i ramai, che producevano stampi, pentole e bigonci per la lavorazione del latte. E poi oggetti sacri, piccoli manufatti preziosi. Quegli oggetti di chiesa erano la specialità del cesellatore Pierino, un artigiano che stava diventando un artista, uno scultore del rame.

Poi, con l’arrivo dell’acciaio, i rami sono stati buttati come vecchi ricordi. E invece il rame è un materiale straordinario, interamente riciclabile, eterno e sostenibile; il miglior conduttore di calore, addirittura venticinque volte più dell’acciaio!

Pierino ha reagito con tenacia alla crisi, continuando la lavorare e a collezionare. La sua bottega è anche un museo, il più grande d’Europa, con oltre tremila pezzi pregiati che vanno dal Cinquecento a oggi. Un museo vivo, una continua fonte di ispirazione e dialogo tra il presente e il passato, per lavorare oggi come cinque secoli fa!

Pierino abbassa nuovamente le palpebre. Si lamenta della salute degli occhi. Io invece non riesco fermare lo sguardo che rimbalza frenetico da un angolo all’altro della bottega. Ogni minimo spazio è riempito di storie: racconti racchiusi nelle forme di centinaia di oggetti. Basta puntare una luce di taglio e le quinte luccicano d’oro e ambra.

Pierino prende un vaso su cui sta lavorando da anni, interamente cesellato a mano. È riempito di pece per assorbire i colpi e decorato con fregi, frutta e animali che emergono dal vaso. Un colpo dietro l’altro, un lavoro minuzioso che tende a una fine che non esiste. Ci sarà sempre un altro colpo da dare, un’altra figura da perfezionare.

Massimo – il nostro regista – vorrebbe riprendere un decoro sbalzato a mano mentre affiora dal foglio di rame.

– Potrei fare uno stampo da budino, – dice Fiorenzo.
– Quanto ci vuole?
– Un’ora. Forse meno.

Massimo calcola i fotogrammi e decide l’intervallo degli scatti: uno ogni tre secondi, per avere un movimento rapido ma fluido. Posiziona la telecamera, ben salda sul cavalletto. Fiorenzo posiziona invece lo stampo di piombo sul banco e lo riveste con un vaso grezzo di rame.

– Motore…
– Partito.
– Azione!

Fiorenzo inizia a martellare con uno scalpello di gomma. Tutti escono, io invece rimango lì, davanti a lui. Lo vedo lavorare tutto d’un fiato, solo lui e la forma che emerge dal rame. Non dice una parola, ogni tanto respira. Le mani corrono rapide, sicure. Una sequenza infinita di colpi. Me li gusto tutti, dal primo all’ultimo. Non ce n’è uno che sia uguale all’altro. Lo ascolto lavorare, a occhi chiusi. Un’esperienza ipnotica.

Poi la stagnatura a caldo. Un altro mondo di suoni e colori da vivere tutti d’un fiato. L’operazione si svolge all’aperto. Se ne incarica Stefano, l’altro figlio di Pierino. Usa verghe di stagno puro al 100% che scioglie sul fuoco vivo e poi, con pochi gesti ampi, stende sul rame con un panno di lana di vetro. Movimenti veloci, che sembrano approssimativi come quelli di una massaia mentre asciuga i piatti. E invece sono una danza di piccoli tocchi per avvicinare e allontanare il manufatto dal fuoco: equilibrio tra riscaldamento e raffreddamento. Al termine, l’interno della pentola è lucido, uniforme, perfettamente stagnato.

Mentre il lavoro di Fiorenzo era lento e minuzioso, somma di piccole e impercettibili correzioni, quello di Stefano è breve, dinamico, senza possibilità di errore. Come un pugno ben dato: quando lo vedi partire, sei già al tappeto.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venite a Ravina di Trento, nella Val Gola. Ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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I tartufi di Lulù.

Oggi siamo in Umbria. Il paese è Norcia; il paesaggio: il Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Le coordinate geografiche sono 42°47’ Nord e 13°5’ Est.
Per una volta, non c’è un viaggio da fare: siamo già a Norcia e l’appuntamento è con tutta calma alle 9.30 nella piazza del paese. Ci aspetta Nicola, un agricoltore che è anche un cavatore di tartufi.

Ha cominciato per caso da ragazzino, scoprendo di avere talento. Le prime uscite erano in compagnia del fratello maggiore, che era meno bravo di lui e gli sottraeva una parte del bottino.
Da allora, la passione lo ha portato a camminare per ore e ore, quasi tutti i giorni, nei boschi che vanno da Norcia a Castelluccio. Solo lui e i suoi cani. Un’attività che sembra una pratica di meditazione: da soli in campagna, a riflettere sulle cose e a svuotare la mente per cercare funghi preziosi che si nascondono nel terreno.

Il tempo di un caffè per fare conoscenza e dare un’occhiata alla sceneggiatura. Correggiamo qualcosa, poi saliamo in macchina e andiamo verso le tartufaie di Nicola.
Raggiungiamo la selva in una ventina di minuti. La ricetrasmittente nel giubbotto di Nicola comincia a gracchiare. Voci concitate miste a richiami, il volo di un elicottero, lesirene della polizia.
Mi fermo. Pensavo di fare un po’ di meditazione nei boschi di san Benedetto, immerso nella pace della natura, alla ricerca di piccoli tesori nascosti. Invece, mi ritrovo nei pressi di una vasta battuta di caccia al cinghiale, con la polizia municipale che pattuglia l’area e sorveglia i cacciatori, un elicottero che osserva dall’alto e gli uomini che dal basso si lanciano segnali sulle posizioni delle prede e della squadra.
– Non sembra una caccia ad armi pari… – dico a Nicola, a mezza voce.
Lui tace e sorride. Poi spegne la radio, l’eco dell’elicottero si perde in lontananza e noi cominciamo a salire.

Il cane di Nicola si chiama Lulù e sarà il vero protagonista della puntata. Non ero mai stato in cerca di tartufi. Resterò sbalordito: in un paio d’ore, Lulù non sbaglierà un colpo.
Nicola mi spiega che in estate si esce all’alba perché con il caldo i cani si stancano e non percepiscono gli odori; in inverno, invece, si va a caccia nelle ore più calde, perché è solo quando il tepore del sole riscalda il terreno che i profumi del tartufo emergono e solleticano l’odorato del cane.
Quello dei tartufi è un mondo nascosto, che si sviluppa interamente sottoterra. Quando le spore raggiungono la piena maturazione, il profumo del tartufo risale la crosta del terreno e si libera nell’aria. È allora che i cani lo avvertono.

Ogni cinque minuti, Lulù parte alla carica naso a terra, attratta da un mondo di odori che è solo suo. Nicola la incoraggia con la voce e la segue da vicino. Quando il cane trova il tartufo, l’uomo interviene con una zappetta e scava con precisione: prende il fungo, lo pulisce con cura e lo mette nel cestino. Il suo carniere.
La vita dei tartufi è avvolta nel mistero e si può scoprire solo lentamente. Occorrono
pazienza e intuito. Nicola conosce palmo a palmo questi boschi ed è come se avesse in
testa una mappa mentale dei luoghi. Bisogna passare e ripassare negli stessi punti per giungere prima di tutti nel momento in cui le spore sono mature: prima non si sente niente, dopo non c’è più niente.

Nicola e Lulù sono già molto affiatati. Lei è una cockerina nera di un paio d’anni: è ancora giovane e l’istinto della caccia tende spesso a prevalere. Sente la battuta ai cinghiali nelle vicinanze e ogni tanto si allontana. Nicola la richiama e lei sa come farsi perdonare. A ogni buona azione del cane, un biscotto dell’uomo. Più che un premio, un ringraziamento. Piccole attenzioni che l’uno e l’altro si riservano a vicenda. Noi siamo lì, tra loro: filmiamo e fotografiamo, passeggiamo. Il clima è mite e verrebbe voglia di restare a lungo, molto a lungo.

Individuo una bella radura con una vista ampia sulla valle. La indico a Nicola e a Davide.
– Lì non va bene per i tartufi, – dice Nicola.
– Giusto, – dico io, – qui non va bene…
In effetti, Lulù lavora sempre ai margini dei sentieri o nei campi brulli e scoscesi, sotto piante vecchie o cespugli. Nicola mi spiega che il terreno ideale, qui a Norcia, sono quei vecchi vigneti di collina abbandonati, dove sono rimasti i tralci inselvatichiti e il terreno non è più lavorato. La terra deve essere morbida ma sassosa, non secca ma neppure troppo umida, perché il tartufo non ama l’acqua.
È anche una questione di clima. Nicola non guarda le previsioni su internet, però fiuta il tempoosservando come si muovono le foglie e le nuvole; sente l’arrivo del secco e dell’umido, del sole, della neve e del gelo. A seconda del clima, decide dove cercare e quanto cercare.

Dietro un pregiato tartufo nero di Norcia, c’è sempre il fiuto di un cavatore esperto e il
prezioso tartufo del suo cane.
L’addestramento del cane è una della parti difficili del lavoro. In genere si parte da un cucciolo di buona genealogia. La discriminante è molto semplice: il cane deve amare il tartufo. Agli aspiranti cavatori a quattro zampe vengono offerti dei piccoli tartufi e solo i cuccioli che mostrano interesse, che ci giocano e li tengono in bocca, vengono addestrati.
La chiave, come sempre, è la ricompensa. Il cane lavora per amore: un amore spesso viscerale, istintivo, che lo lega al suo compagno. Non si può né imporre né insegnare. Non accade spesso, ma quando si vede è una cosa bellissima.
Ogni buona azione sarà una carezza, una parola d’affetto, un biscotto. Ogni errore
sarà un no: sillaba secca e ferma e chiara, niente di più. Comunicazione diretta, esplicita. Mai violenta, paziente piuttosto. Anche i no vanno detti con il cuore.

Nicola ha recentemente iniziato degli esperimenti molto interessanti impiegando i suini al posto dei cani. In effetti, l’antica iconografia è ricca di immagini con uomini e maiali in cerca di tartufi. Nicola però mi spiega che si tratta soprattutto di folclore. Impossibile addestrare un maiale come un cane, impossibile gestirlo quando è poco più di un cucciolo, impossibile togliergli dalla bocca un tartufo. In origine, spostando gli animali da un recinto all’altro, i contadini dovevano aver notato l’abilità dei suini nel trovare – oltre a ghiande e bacche – anche tartufi. Da lì l’idea che fossero grandi cercatori.
– Forse… – dice Nicola, – ma solo per se stessi; non certo per l’uomo in cambio di un biscotto.
– E allora?
– Allora lo faccio per gli americani.
– Americani?
– Turisti, in cerca di piccole emozioni…
– Quindi è solo folclore?
– Per adesso sì, – conclude Nicola. – Un po’ di folclore, un po’ di tradizione… piccole emozioni.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venite a Norcia e nei boschi del Parco Nazionale dei Monti Sibillini; ma non come
turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Le sardine del Sebino.

Oggi siamo in Lombardia. Il paese è Monte Isola; il paesaggio: il lago d’Iseo.
Le coordinate geografiche sono 45°42’ Nord e 10°4’ Est.

Parto da Genova alle cinque del mattino, per arrivare presto sul Sebino. Guido nella notte con poche ore di sonno e lascio che la strada scorra sotto l’auto, piatta e uniforme. I fari illuminano la via quel tanto che basta per andare dritti. Il resto è un insieme indistinto, solo buio che si confonde con altro buio. Evito di pensare e non mi sforzo neanche di cogliere il mutare del paesaggio, dal mare alla pianura, fino alla base dei monti. Poi arriva la luce e sono a Brescia. Un paio di svincoli superati in qualche modo, sempre a cervello spento e con l’aiuto del navigatore; poi una svolta a destra e infine la strada che porta al lago.

Per la prima volta apro realmente gli occhi e ciò che vedo vale la giornata: il lago d’Iseo che si distende verso nord, con Monte Isola al centro e dietro, sullo sfondo, le cime innevate delle Alpi Orobie. Per un po’ guido con il naso all’insù, alla francese, mescolando il blu scuro del lago con il verde dei boschi e il bianco della neve già illuminata dal sole.
Se fossi arrivato con comodo ieri sera, mi sarei perso tutto. Del resto, siamo venuti sul Sebino per parlare di pesca; svegliarsi presto al mattino era quasi un obbligo.

Lorenzo – il protagonista della puntata – è un ragazzo di venticinque anni che si sveglia sempre all’alba. Era emigrato nella grande città per studiare Architettura, ma a quattro esami dalla fine è tornato sul suo lago per diventare un pescatore professionista.

Queste acque sono frequentate dai pescatori fin dalla più remota antichità: da oltre mille anni le sponde del lago d’Iseo sono abitate da gente che ogni giorno prende il largo per calare le reti e catturare agoni, coregoni, persici, carpe e anche salmerini, i salmonidi che cercano le acque più fredde e pulite.

Lorenzo ci raggiunge con il suo naétt, il tipico scafo del lago, affusolato come una gondola, molto maneggevole e con il fondo piatto. Durante la pesca si governa con i remi che lavorano incrociati, con piccoli gesti esatti.
Sulla barca c’è già il cesto con le reti. Adesso è stagione di agoni, le sardine d’acqua dolce. Per pescarle si utilizza una rete particolare, chiamata sardenera, con le maglie molto fitte e la tensione piuttosto morbida. La sardina di lago è molto più lenta di quella di mare e la rete deve essere più sensibile per catturarle.

I retifici di Monte Isola avevano iniziato l’attività già nell’anno Mille, e nell’Ottocento erano tra i più famosi in tutta Europa. Anche oggi sono garanzia di qualità artigiana per le reti da pesca, ma nel frattempo sono diventati tra i maggiori produttori mondiali di reti per lo sport, dalle porte dei campi di calcio alle reti da tennis e pallavolo. Qualità artigiana italiana che resiste nel tempo, si adatta e si trasforma reinventando le proprie tradizioni.

Il lago è calmo, il sole alto: la giornata si annuncia fresca e luminosa. Il Sebino è un luogo dal fascino unico, con acque scure che sembrano racchiudere chissà quali segreti. Le montagne svettano tutt’intorno, ma prima si vedono i boschi e prima ancora i vigneti e soprattutto gli oliveti.

Ci allontaniamo dall’isola in barca e mi soffermo con lo sguardo su un bosco di cipressi. Abituati a vederli ordinatamente allineati sui dorsi delle colline, sui viali delle chiese, dei cimiteri e delle dimore residenziali, quasi non pensiamo più ad alberi capaci di crescere spontaneamente. A Monte Isola, proprio sopra il centro abitato e subito sotto uno sperone di roccia viva, cresce un bosco di cipressi: bellissimo nella sua inusuale spontaneità.

Il territorio di pesca, oggi è nel centro del lago. Lorenzo aveva calato le reti al mattino presto. Mentre io viaggiavo, lui pescava. Adesso andiamo insieme a salparle. Mi confida che siccome ieri c’era maltempo, il pesce potrebbe essersi mosso: spera in una buona pesca. Superiamo l’isola di San Paolo, splendido scoglio sormontato da un frammento di bosco che sembra galleggiare sull’acqua. In origine era di proprietà dei monaci, poi passò di mano in mano fino alla fine del ‘700, quando divenne di privati.

– Oggi è dei Beretta, – mi confida Lorenzo, mentre governa la barca.
– Salumi?
– Armi.
– Ah.

Lorenzo impiega poco più di un’ora per salpare la rete. Il freddo è pungente, reso ancora più aggressivo dall’umidità del lago e dalla luce del sole che si è indebolita sotto un velo di nubi. Inoltre si è alzato il vento e increspata l’acqua. Lorenzo non batte ciglio. A mani nude continua a lavorare sulla rete, togliere i pesci e sorridere come se stesse facendo la cosa più bella del mondo. Da solo, sulla sua barca, in mezzo al suo lago. Davvero una cosa bellissima.

Oggi la pesca è molto buona. Le reti sono piene di sardine di generose dimensioni. Lorenzo è felice e noi con lui: forse gli abbiamo portato fortuna.
Torniamo subito a terra per pulire il pescato, che deve essere preparato per l’essiccazione. Timidamente chiedo se non si possa pulire a bordo, per pasturare l’area di pesca senza sporcare a terra. Lorenzo mi dice che si è sempre fatto così, ma che oggi non si può più. Lo impediscono le leggi e le multe sono salate (nonostante l’acqua dolce del lago). Chiedo perché, ma nessuno sa dirmi come mai le interiora dei pesci, che vengono dal lago, non possano tornare al lago e diventare cibo per altri pesci.

Dovremmo dedicare un ciclo di Paesi, paesaggi all’assurdità di certe leggi che sembrano fatte apposta per ostacolare il lavoro degli artigiani e la loro ricerca della qualità.

La pulizia del pesce si pratica con una tecnica antica: un taglio che il pollice scava sotto le branchie, da cui si fanno fuoriuscire le interiora. Un gesto rapido che Lorenzo mostra alla telecamera mentre Davide indossa la parannanza e si appresta a imitarlo nel lavoro.
Poi le sardine vengono salate e lasciate riposare un paio di giorni prima di essere appese sugli arconi – gli archèc – i tradizionali telai che nei mesi freddi tengono il pesce all’aria fresca e ventosa del lago. Rimangono all’aperto circa un mese, poi le sardine vengono messe sott’olio e si conservano per anni.

Il finale della giornata è mozzafiato. Ormai è quasi buio e dobbiamo ancora girare l’arrivo e la partenza di Davide, con alcune battute in diretta dalla sedia. Massimo – il regista – si ostina a voler effettuare queste riprese sul lago, a bordo del traghetto, che però farà una sola corsa di cinque minuti poco prima che cali l’oscurità.
Arriva il battello e saliamo di slancio. Giriamo subito cinque o sei stacchi tutti buoni alla prima. Davide ricorda alla lettera anche le frasi più lunghe e ingarbugliate. Il pilota del traghetto sembra divertito della nostra efficiente frenesia. Deve essere il profumo della televisione: tutti vedono un solo lato dello schermo, e quando capita di sbirciare cosa succede dall’altra parte, durante le riprese, lo spettacolo diventa vero.

L’uomo capisce che ci farebbero comodo un paio di minuti di margine. Allora, sotto gli occhi attoniti dei passeggeri in attesa sul pontile di Sulzano, sposta la barra del timone e disegna un ampio cerchio panoramico. Massimo ci prende gusto e gli chiede di rimanere fermo così, con le Alpi innevate sullo sfondo.
Il tempo di una battuta. L’ultima della giornata.

Bene, adesso è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite a Monte Isola, sul Lago d’Iseo; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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