Archive for novembre, 2014

La Signora di Conca Casale.

Oggi siamo nel Molise. Il paese è Conca Casale; il paesaggio, l’Alto Volturno. Le coordinate geografiche sono 41°29’ Nord e 14°00’ Est.

Partiamo da Venafro e cominciamo a salire. Un’ascesa morbida, con curve larghe e ben disegnate. A poco a poco, il paesaggio respira e la vista si distende su un territorio ampio. Poi si scollina e si entra in una grande conca naturale. La strada, rettilinea, attraversa senza incertezze un luogo bellissimo e irreale. Sembra di essere nel cratere di un vulcano spento: una specie di valle incantata, scavata nel monte dalla caduta di un meteorite.

Conca Casale è un piccolo borgo dove si è probabilmente fermato il tempo. Raggiungo l’abbeveratoio, leggermente fuori dal paese. Mi guardo intorno, ruotando lentamente su me stesso. L’abbraccio delle montagne rende mite il clima: protegge la valle, ma al tempo stesso la isola e l’allontana dal resto del mondo.

In questo paesaggio bucolico si coltivano da sempre eccellenti lenticchie, fagioli, fave, patate e cicerchie. Ci sono anche oliveti che s’inerpicano a mezza costa su terrazzamenti delimitati da muretti a secco; poi pascoli e allevamenti di bovini e suini. Soprattutto suini; dalle loro carni nasce una Signora molto speciale.
Siamo venuti qui proprio per questo: per conoscere la Signora di Conca Casale.

La piazza del municipio è il cuore del paese. Cerchiamo di capire dove andare quando ci raggiunge un ragazzino in bicicletta.
– Siete quelli della televisione?
Non aspetta nemmeno la risposta e riparte su una ruota. Lo seguiamo mentre costeggia la chiesa e s’infila in un vicolo stretto. La strada prosegue tra due campi di legumi e si restringe nuovamente. Il ragazzo impenna ancora e sparisce nel vicolo. Noi ci fermiamo in prossimità della macelleria di Bruno, il protagonista della puntata. Siamo arrivati.

Ci viene incontro Gaia, sua moglie. Questi due giovani hanno recuperato l’antica tradizione della Signora di Conca Casale e sono oggi gli unici produttori di questo prezioso salume.

Bruno era andato in cantina a regolare la fiamma del camino. Quando ci raggiunge, siamo pronti per iniziare le riprese. Davide si toglie la giacca, indossa un grembiule rosso e si appresta a lavorare la sua prima Signora.

Si comincia con il taglio delle carni, rigorosamente a mano, in punta di coltello. Bruno procede svelto, con precisione; Davide lo segue di pari passo. Lo vedo particolarmente a suo agio nei panni di apprendista norcino. Io m’infilo come un’anguilla negli interstizi tra il banco, le luci e la telecamera per scattare qualche foto di scena. Urto uno stativo, ma per fortuna è già tempo di cambiare inquadratura. La Signora comincia a prendere forma. Sul banco compaiono i vasetti di pepe nero, sale, coriandolo, peperoncino e finocchietto selvatico. Davide e Bruno impastano la carne per poi sminuzzarla e insaccarla.

Esco dal laboratorio e scambio due battute con Gaia. Mi racconta della tradizione della Signora che veniva preparata in casa dalle donne del paese, dopo aver ammazzato il maiale. Ma il nome deriva dal fatto che la Signora era così preziosa che si donava solo ai signori del luogo: al maestro, al notaio, al nobile, al parroco.

La Signora di Conca Casale si distingue per la qualità delle carni, le difficoltà di lavorazione, ma soprattutto le dimensioni, che possono anche raggiungere i cinque chili nel prodotto fresco. La Signora si prepara infatti con il budello cieco del suino, che è molto grande e pieno di tasche, difficili da riempire senza lasciare entrare aria.

Da un intero maiale si ricava una sola Signora. Un regalo davvero prezioso. Si torna in laboratorio. Davide e Bruno sono adesso alle prese proprio con il budello, che è stato accuratamente lavato con scorze di agrumi che daranno alla Signora una piacevole e caratteristica nota di freschezza.

L’insaccatura è la parte più difficile del lavoro. Bruno inizia con la maestria tipica dell’artigiano, Davide lo imita con buona manualità. Deve però riempire meglio le tasche del budello, dare maggiore compattezza all’insaccato. Bruno lo aiuta e a poco a poco le forme della Signora si fanno ben tornite: tutta carne soda, senza aria aggiunta.

La chiusura del sacco è compito del norcino, che prepara il filo e comincia ad annodare il salame creando una catenella. Anche Davide realizza un giro di corda, poi un ultimo nodo, il taglio e la Signora è finalmente pronta per invecchiare.

In cantina, al freddo dell’inverno, diventerà il pregiato salume di Conca Casale. Bruno l’appende al soffitto. La Signora è così grande che è sempre in primo piano: è proprio lei la signora dei salumi.

La fiamma arde nel camino. Bruno toglie un ceppo e mi spiega che la stagionatura si realizza con il freddo e l’aria, il fuoco serve solo ad asciugare l’umidità.

Ultima tappa: la materia prima. A Conca Casale le famiglie allevavano per tradizione i suini Neri abruzzesi, oggi praticamente scomparsi. Bruno ha in mente un progetto di reintroduzione, ma intanto lavora con altri capi che alleva allo stato semibrado, nutrendoli in maniera rigorosamente naturale. Sfarinati, avanzi di cucina, ma soprattutto le ghiande delle querce che circondano l’allevamento.

Registriamo ancora qualche scena, poi andiamo tutti a mangiare nel ristorante che altri due giovani hanno aperto a Conca Casale. Un locale che è anche una scommessa, giocata insieme a Bruno e Gaia. I norcini e i ristoratori cercano di mettere in rete le reciproche capacità per realizzare un locale che funzioni tutto l’anno.

Oggi ci propongono alcuni piatti tipici che valorizzano la Signora e i legumi di Conca Casale. Si comincia con la polenta di mais agostinello, sfilacci di Signora e salsiccia. Il mais agostinello è un grano tipico molisano che matura ad agosto e si presenta con una caratteristica pannocchia rossastra. Si macina a pietra ed è indicato per la polenta e la pizza. È un piatto dai sapori molto decisi ed equilibrati, da gustare rigorosamente con il cucchiaio, come insegna Davide. Perché il cibo bisogna raccoglierlo, non infilzarlo.

Poi assaggiamo una terrina di pasta e fagioli con i legumi di Conca Casale insaporiti da piccoli tagli di Signora. I legumi del luogo sono giustamente famosi e si legano perfettamente alla qualità della carne.

Infine le patate di Conca Casale e la salsiccia di Bruno cotta alla brace. Il tutto accompagnato da pane fatto in casa nel forno a legna con lievito madre e da una bottiglia di Titilliano, il vitigno autoctono: un rosso corposo, con note fruttate e sentore di pepe.

Prima di ripartire, fotografo alcuni salumi di Bruno e Gaia ben disposti sulla tavola. Le carni sono leggermente più scure di quelle cui siamo abituati. Non ci sono conservanti né additivi, solo sale e pepe. Questi salumi non sono fatti per illudere la vista, ma per piacere al palato.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite a Conca Casale, nell’Alto Volturno; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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La leggenda della burrata.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Andria; il paesaggio, le Murge. Le coordinate geografiche sono 41°13’ Nord e 16°17’ Est.
L’aereo per Bari parte alle 15.50 da Malpensa. A mezzogiorno sono ancora a Genova. Squilla il telefono: è Davide.
– Dove sei? Qui è tutto bloccato. Ci sono anche i cecchini a Milano…
– Cecchini?
– C’è l’asse Europa-Asia: capi di Stato, polizia, esercito, strade chiuse…

Mi affretto a chiudere la valigia e a salire in macchina, mentre nel corso del vertice il delegato cinese afferma che i nostri vini non sono inferiori a quelli francesi, ma siccome nessuno lo sa deve esserci un problema di comunicazione.
Già, la comunicazione. Proprio ciò che tentiamo di fare con la nostra rubrica, raccontando le anime di un’Italia nascosta, troppo spesso invisibile.

Per una volta nella vita, viaggio come in un telefilm. Tutto si incastra alla perfezione: le code, gli svincoli, i blocchi stradali; non manca niente, a parte i cecchini. Tutto scorre e senza affanno mi presento al gate numero cinque del terminalB un’istante prima che si chiuda l’imbarco.
Lascio il Nord in scioltezza.

Il Sud mi accoglie assieme al resto della troupe in un’antica masseria alle porte di Andria, da dove partiamo per esplorare le Murge. Si tratta di un altipiano in prevalenza carsico, ma le rocce di Andria sono tufacee, di un marrone molto chiaro e venato di rosa che risplende alla luce del sole.
Sembra la frontiera di Sergio Leone, uno spazio di gole strette che si aprono improvvisamente verso orizzonti larghi e ventosi. Un paesaggio che si espande come una macchia d’olio, come volesse sfuggire alla vista.

Siamo qui per raccontare la leggenda della burrata, una delizia di latte e mozzarella nata per sbaglio e per necessità su queste montagne, all’inizio del Novecento.
Michele, il protagonista della puntata, è uno dei casari di Andria che ha fatto della burrata la sua specialità. Ci attende in paese, nel suo caseificio, mentre rimbalziamo da un capo all’altro delle Murge collezionando immagini.

Attraversiamo pianure che diventano monti, gole, colline, pascoli, boschi e infine monumenti. Tutto converge ai piedi di Castel del Monte, una struttura tanto imponente quanto equilibrata: un luogo eretto per diletto da Federico II di Svevia, perfetto palleggio di sogni esoterici e assenza di finalità pratiche. Svetta dalla cima di un colle, al centro degli antichi territori di caccia del re. È di un bianco quasi abbagliante. Un faro di terra, costruito su un banco roccioso. La pianta è ottagonale, con otto torri anch’esse ottagonali che sorgono in corrispondenza degli spigoli. Volumi che si armonizzano nei giochi di forme e nei contrasti cromatici di breccia corallina, pietra calcarea e marmi.

Un’opera perfetta, destinata a vivere in un eterno tempo presente. È qui che decidiamo di mettere la sedia di Davide e girare buona parte della trasmissione. Lavoriamo circondati da ondate di turisti. Gli stranieri ci guardano incuriositi, gli italiani ci riconoscono.

Giunti quasi al termine, ci raggiunge un’impiegata del castello. Ci chiede se abbiamo i permessi. Domanda retorica, per noi artisti dell’improvvisazione. Però capisco le sue ragioni e provo a dire che siamo una rubrica che parla bene dell’Italia e degli italiani. Mi sorride. Anche lei guarda Paesi, paesaggi. Aveva subito riconosciuto Davide – che immaginava più basso – e la sua sedia.

Per fortuna anche la direttrice del castello sa di noi e del nostro lavoro, così possiamo tornare ad Andria con la telecamera piena di buone riprese. Nel frattempo, Michele ha terminato la produzione della giornata e si appresta a vivere con noi una coda tutta artigianale, con il latte lavorato a mano, le forme realizzate a una a una come piccole sculture di latte.

Il caseificio si trova all’interno di un’antica masseria. L’interno è suggestivo, con una ripida scala che divide il punto vendita dalla zona di lavorazione e che porta ai piani alti. Le arcate sono in tufo e le volte con le pignatte e la croce dei Cavalieri di Malta. Ci sono due stanze che sono un piccolo museo di cultura materiale, con antichi attrezzi per il lavoro dei campi, l’allevamento del bestiame e la lavorazione del latte.

Oggi, l’azienda di Michele e della sua famiglia ha raggiunto dimensioni importanti, ma ha mantenuto uno spirito tradizionale dove il lavoro è ancora quasi tutto manuale e i dettagli di produzione sono curati con ossessione maniacale.
Ogni giorno, qui si rivive la leggenda della burrata.

Bisogna immaginarselo, il territorio delle Murge un centinaio di anni fa, imbiancato da una nevicata eccezionale, con i pastori e il bestiame bloccati sui monti, le vacche da mungere e il latte da lavorare.
Per non buttare via niente, quei geniali casari inventarono la burrata. Presero dei fogli di pasta filata e li riempirono con gli avanzi di produzione: latte, panna, burro, sfilacci di mozzarella. Poi chiusero quei fagotti con delle lunghe foglie di vizzo, un’erba aromatica locale che aggiungeva un tocco piccante alla delicatezza del formaggio.

Davide si toglie la giacca di scena, indossa un grembiule bianco e si appresta a immedesimarsi nella leggenda. Lavora e impara. All’inizio immerge le mani nell’acqua bollente, poi in quella ghiacciata. L’equilibrio spesso nasce dal conflitto dei contrasti.

La prima forma non si scorda mai. Ma è come un bacio rubato, una frase detta balbettando. Com’è naturale, Davide lavora troppo in fretta: maneggia il cacio con gesti rapidi e nervosi, non sfrutta la gravità e lo modella solo con la forza.
Michele gli tocca delicatamente il braccio con il palmo della mano. Gli suggerisce di fare piano e di accarezzare la materia.

La seconda e la terza forma si dimenticano, però sono già buone. Me ne accorgo anch’io, mentre scatto le foto di scena. I gesti di Davide si distaccano dalle inquietudini e diventano a poco a poco più lenti e precisi. Anche il respiro rallenta, la mente si svuota.
Lavorare il latte è un’arte che si affina nel tempo, ma bisogna averla dentro. Il latte è sempre diverso e anche il casaro deve essere fluido. Non c’è mai niente di ripetitivo in questo mestiere: sempre gli stessi gesti, ogni volta diversi.

Infine l’assaggio. La burrata deve essere freschissima e bisogna acquistarla tutta intera, tagliandola solo nel piatto, in modo da non perdere il succo di latte. Dettagli preziosi che Davide spiega con evidente piacere. Anche quella della degustazione è un’arte che si affina nel tempo ma che bisogna avere dentro.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite ad Andria, nelle Murge; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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Una rete di lana d’Abruzzo.

Oggi siamo in AbruzzoIl paese è Scanno; il paesaggio, il Parco Nazionale d’Abruzzo. Le coordinate geografiche sono 41°53’ Nord e 13°53’ Est.

Parto all’ora di pranzo da Genova e imbocco l’autostrada, rassegnato a uscirne dopo molti chilometri.
Davide parte da Milano, più o meno alla stessa ora.
Siamo entrambi soli, ma ci teniamo compagnia telefonandoci a intervalli regolari. Io gli racconto di un versante tirrenico soleggiato, lui mi parla di una sponda adriatica in preda alla bufera. Le mie nuvole sono candidi riccioli sospesi sul cielo terso, i suoi nembi sono cumuli selvaggi spinti a terra dalla Bora che smuove l’Adriatico.

Procediamo come in un montaggio alternato cinematografico. Due puntini che scivolano verso sud, marciando paralleli in condizioni climatiche opposte. Una cresta di terra appenninica divide due mondi.
All’altezza di Roma piego verso l’interno. All’altezza di Pescara, Davide piega verso l’interno. Dovremmo scontrarci a Cocullo.
Lui arriva poco prima di me. Mi telefona e mi racconta di una strada tutta curve, rocce vive e pareti a strapiombo. Bellissima.

Saliamo fino a Scanno. Lui resta davanti, ma di poco. Esce dal paese mentre io costeggio il lago, sagomato dalla natura a forma di cuore. All’improvviso due caprioli attraversano la strada e si tuffano nel bosco. Io mi blocco, affascinato, e loro tornano indietro. Adesso sono quattro. Mi vengono incontro, forse abbagliati dalle luci della macchina. Spengo i fanali e i caprioli svaniscono. Se ne vanno morbidamente, come accarezzando l’aria. Mi hanno dato il loro benvenuto nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
Chiamo Davide per raccontargli dell’incontro, ma non c’è segnale. A modo suo, la morte del telefono è un’altra forma di benvenuto.

L’indomani mattina iniziamo subito le riprese. Incontriamo Roberta, la protagonista della puntata, che viene da Pescara. Lei è un architetto e un designer, ma soprattutto una donna che ama la lana e che qualche anno fa ha deciso di fondere la sua passione con la sua professione. Ha creato un’attività non facile da spiegare in tre minuti di televisione. La storia però è bellissima, da qualunque parti la si osservi.

Iniziamo dalla materia prima: la lana. Qui in Abruzzo è stata per molti secoli fonte di ricchezza, poi è scomparsa dagli scaffali dei negozi e dalle bancarelle nei mercati, divorata dalle fibre sintetiche. Più voraci delle tarme. L’intuizione di Roberta è stata quella di ricostruire l’antica filiera di produzione: trovando l’allevamento e le pecore, filando la lana e infine lavorandola, magari insegnando ad altre donne un’arte che qui a Scanno è radicata come in pochi altri posti al mondo.

Roberta è salita sulle montagne d’Abruzzo e ha trovato l’allevamento di Gregorio, un vero personaggio, grande casaro. Il suo gregge conta oltre 1500 capi di razza Sopravissana, una pecora a triplice attitudine: morbida lana, ottima carne e buon latte. Il loro vello è quasi materno; i colori sono quelli della terra, dal bianco panna al marrone scuro.

Come dicevo, la tradizione del lavoro a maglia è profondamente radicata a Scanno. La lana valeva oro e i pastori abruzzesi ne possedevano in quantità.
Erano transumanti e trascorrevano molti mesi all’anno lontano da casa: in inverno scendevano verso il mare e con la bella stagione tornavano sui monti. Le loro donne, signore dei fuochi nel borgo, facevano a maglia e amministravano denari.

Il centro abitato è rimasto intatto e vi si respira l’antica ricchezza in ogni dettaglio architettonico. Vie strette lastricate, archi in pietra e portali sormontati da suggestive maschere apotropaiche. Volti allegorici scolpiti da veri artisti per tenere lontani gli spiriti e i seccatori, entrambi maligni. Bocche deformi e smorfie selvagge, gole nascoste per mettere in comunicazione le case con le strade e lanciare insulti, escrementi, colpi di schioppo. Ogni casa era una piccola realtà fortificata.

Scegliamo un angolo raccolto con un bel portale e tre ampi gradini di pietra dove Davide e Roberta lavorano all’uncinetto con le donne di Scanno che indossano il costume tradizionale.
Fa freddo e la pietra è umida. Davide e Roberta soffrono, mentre le donne di Scanno chiacchierano e alternano semplici catenelle a punti più complessi. I loro costumi sono in panno pesante, i corpetti decorati e sagomati in mondo che il seno assomigli alla prua di una nave, le gonne che cadono dritte fino alle caviglie con una trama di fittissime pieghe; sono lunghe fino a quindici metri e pesano oltre dieci chili. Un segno di ricchezza, oltre che di bellezza.

Nel pomeriggio, Davide cammina con la sedia in spalla e si perde negli angoli del paese. Si ferma davanti alla fontana Saracco, con le maschere del Re, della Regina, dello Zoccolante e del Cappuccino, poi s’infila sotto arcate e logge, risale scalinate, tocca le pietre dei portali lavorati, si tiene in discesa al ferro battuto delle ringhiere.

Sono innumerevoli gli angoli che rendono Scanno uno dei borghi più fotografati al mondo. Alcune immagini di Mario Giacomelli fanno parte della collezione del Moma di New York, ma qui hanno lavorato tanti maestri come Henri Cartier-Bresson, Gianni Berengo Gardin, Mimmo Jodice, Ferdinando Scianna e tantissimi altri.

Intanto, Roberta e Massimo preparano la parte più complessa del racconto televisivo. Roberta ha infatti fondato una scuola dove insegna a lavorare la lana d’Abruzzo. Si chiama Social crochet e conta già 5000 allievi. Si ritrovano sul web tutte le settimane e lavorano come fossero sui gradini del paese. Roberta ha opportunamente semplificato le tecniche di lavorazione per consentire a tutti di realizzare i propri oggetti. Un design che «nasce direttamente dalle mani di chi lavora la lana», dirà Davide in trasmissione.

Massimo e Roberta hanno allestito diversi set nelle case di Scanno e riprendono le donne mentre lavorano e comunicano attraverso la rete. C’è una strana atmosfera che mescola realtà urbana e natura, la tradizione arcaica del lavoro a maglia e la sua moderna traduzione su internet. Linguaggi che si mescolano e invece di respingersi si attraggono. Una bella atmosfera. Un altro segno di ricchezza, culturale prima che economica.

Prima di ripartire, Davide nota una bottega di oreficeria. Il giovane orafo ci invita a visitare il suo laboratorio e ci mostra gli antichi stampi ricavati negli ossi di seppia. Scaccio Montale dalla mente e colgo un altro evidente segno di ricchezza: la transumanza portava i pastori lontano da casa e metteva in contatto mondi lontani.
Ecco perché – oggi come secoli fa – un artigiano di montagna fonde l’oro negli ossi di seppia, portati a riva dal mare.

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Questo però è un luogo da vivere, non solo da visitare. Così, mentre tutti partono, io decido di restare. Prendo le scarpe da corsa e mi arrampico sui monti, verso la cima di passo Godi. Fa fresco e c’è già un po’ di neve. Il sentiero però è largo e chiaro. Tra poco sarà notte. Chissà, forse vedrò ancora i caprioli, o magari il lupo, l’orso…
Venite a Scanno, nel Parco Nazionale d’Abruzzo; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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Olivi secolari, monumenti della natura.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Ostuni; il paesaggio, la Piana degli olivi secolari. Le coordinate geografiche sono 40°43’ Nord e 17°34’ Est.

Davide e io partiamo dalle Murge verso sera e scendiamo spediti a bordo della nostra piccola auto a noleggio. Come al solito parliamo fitto e ci ascoltiamo a vicenda. Un esercizio che ci riesce talmente bene da annullare le distanze e dissolvere i cartelli stradali. Arrivati a Bari dovremmo proseguire sulla litoranea, invece pieghiamo a destra, verso Taranto, seguendo il flusso delle parole e dei pensieri che si affollano compatti nell’abitacolo della vettura.

A Gioia del Colle realizziamo di essere fuori strada e di avere allungato il tragitto. Così, tanto per non smettere di ragionare sulle cose della vita, racconto a Davide di Haim Baharier e del suo Qabalessico, un libro piccolo e agile, ma prezioso.
Baharier è un maestro del pensiero e della parola. È nato a Parigi, da genitori ebrei di origine polacca. Ha vissuto i drammi della guerra ma ha avuto la fortuna di studiare con Lèvinas e Askenazi. Potremmo definirlo un esegeta, ma è anche un matematico e uno psicanalista. Un maestro, appunto.

Il Qabalessico è una raccolta di riflessioni su piccole questioni che improvvisamente si aprono su mondi sconosciuti e inesplorati. Una di queste riguarda le cosiddette “allungatoie”, quelle circostanze impreviste che cerchiamo di evitare, sempre alla ricerca di scorciatoie. Il maestro suggerisce invece di accoglierle come opportunità.

E infatti, una volta sulla strada per Alberobello, attraversando distese di trulli e oliveti, succede alle nostre spalle qualcosa di speciale. Non possiamo fare altro che fermarci, uscire dall’auto e guardare. Come dicevo: trulli in controluce, ondulazioni dei campi, distese di olivi, intrecci di muretti a secco. E sullo sfondo, imponente come una scenografia teatrale, il cielo con il suo tramonto. Siamo stati lì in silenzio, a guardare, finché è venuto buio. Allungatoie…

Arriviamo nella Piana degli olivi secolari di notte. Ci viene incontro Corrado, il protagonista della puntata. Ci accoglie nella sua masseria, circondata da centinaia di olivi di mille, duemila, addirittura tremila anni.

Prima di andare a dormire, Corrado ci guida sottoterra. Entriamo in un frantoio ipogeo dove si lavoravano le olive delle sue piante già nel Medio Evo, in epoca romana e addirittura al tempo dei Messapi, una popolazione vissuta circa otto secoli prima di Cristo.

Corrado ci mostra le basi delle presse romane e medievali, le vasche di raccolta dell’olio, i canali di scolo scavati nella pietra. Ci indica le stanze di raccolta delle olive, strappate con punta e mazzetta alla roccia e alla terra. C’è anche una grande pietra, orizzontale e ben levigata. Sembra un piano di raccolta, una specie di antico scaffale. Corrado si sdraia su quel masso e spiega che era il luogo dove gli operai dormivano. Immaginiamo la vita di quegli antichi individui, costretti a vivere e lavorare sottoterra per molti mesi. Oggi questo è un luogo dal fascino indescrivibile, ma un tempo doveva essere lo scenario di una vita infernale.

Fino all’Ottocento, i frantoi erano spesso ipogei per due motivi fondamentali: da un lato il bisogno di nascondere l’olio, che era prezioso come l’oro e che doveva essere tenuto il più lontano possibile dai briganti e dai potenti, dall’altro la necessità tecnica di lavorarlo a una temperatura costante superiore ai dieci gradi perché si mantenesse fluido.

L’indomani iniziamo presto le riprese. Trascorriamo una giornata tra gli olivi, a filmare Davide e Corrado tra questi tronchi millenari che hanno già visto e sentito tutto. Sono muti, ma hanno moltissimo da dire. Occorre avvicinarsi a loro con calma, scegliere una pianta e osservarla. La si può toccare, accarezzare e abbracciare, oppure esplorare le cavità del suo tronco, appoggiarsi al fusto, sdraiarsi sulle radici. Si possono indagare le trame della corteccia, alla ricerca di sculture che la natura ha modellato sui tronchi.

C’è un olivo che Corrado chiama “l’albero della vita”, perché da un lato presenta il corpo di un giovane uomo, mentre dall’altro la figura sensuale di una donna, con un serpente accanto al piede. È un albero che si rifiuta di morire. Anche in agonia, continua a dare frutti.

C’è poi il “grande vecchio”, una pianta di oltre tremila anni con il fusto che corre parallelo al terreno ritorto tre volte su se stesso. La cavità dove infilo la testa sembra il boccaporto di una macchina del tempo.

Nella masseria di Corrado dimorano un migliaio di olivi secolari, di cui ottocento censiti dalla Regione Puglia come “monumenti della natura”.
Si può camminare per ore tra questi olivi monumentali, ascoltando le loro parole mute, osservando le forme dei loro corpi vivi. Una cosa che si nota osservando l’insieme del campo è l’inclinazione delle piante. Uno sporgersi costante dei tronchi verso una stessa direzione, con uno stesso angolo rispetto al terreno. Immagino che sia il vento ad aver piegato i tronchi, invece Corrado mi spiega che è il movimento della Terra.
Gli olivi sono inclinati come il nostro asse di rotazione.

Questo luogo è davvero unico al mondo. Per quanto silenziose, queste piante gridano di essere conosciute e protette. Come dice Davide nel corso della puntata, “dovrebbero essere nominate Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco”. Corrado si batte da anni per ottenere questo riconoscimento e speriamo che la nostra trasmissione contribuisca a dare agli olivi secolari di Ostuni la notorietà e il rispetto che meritano.

Queste piante sono un patrimonio vivo e producono olive di qualità, della varietà Ogliarola Salentina. Adesso, a metà ottobre, siamo in piena raccolta. Davide si unisce agli operai e insieme a Corrado imbraccia gli strumenti di lavoro: lunghe pertiche con rastrelli posti alle estremità che permettono di smuovere delicatamente i rami facendo cadere le olive nelle reti stese a terra.
Un tempo, queste olive sarebbero state ammassate sopra il frantoio ipogeo e fatte cadere nelle stanze di raccolta, dove sarebbero rimaste per mesi e lavorate dagli uomini in cattività. Oggi sono frante in una moderna struttura, dove con tecniche artigianali diventano l’unico olio al mondo prodotto da monumenti della natura.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Ma prima di proseguire il viaggio, ci fermiamo nella Grotta della Maternità, a pochi chilometri da Ostuni. Qui è stato ritrovato lo scheletro della madre più antica dell’umanità: una giovane donna di 28.000 anni fa. Il corpo è ben visibile, sdraiato su un fianco; una mano sotto la guancia, come per ammorbidire la durezza del terreno, e l’altra sulla pancia, ad accarezzare la vita anche in punto di morte.
Venite a Ostuni, nella Piana degli olivi secolari; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti.

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