Archive for ottobre, 2014

Il risveglio delle vacche “strache”.

Oggi siamo in Lombardia. Il paese è Corna Imagna, il paesaggio quello dell’omonima valle. Le coordinate geografiche sono 45°49′ Nord e 9°32′ Est.

Il viaggio è senza sussulti, da Genova a Dalmine passando per Milano. Monotono, piatto, autostradale. Una galoppata attraverso la Lombardia delle industrie e delle comunità denuclearizzate: la città infinita, come la chiama Aldo Bonomi.

Poi, alle porte di Bergamo, si imbocca la statale e si comincia a salire. Il Resegone è lassù, ancora non si vede ma già si sente. La strada risale la valle e rimane lieve, le curve appena abbozzate. Poi, a un certo punto, si entra in un altro mondo. Lo si percepisce tutt’intorno, con i profumi intensi del castagno dopo la pioggia.

Questa è una valle molto aperta che si divide in due. Il lato sinistro è ben esposto al sole ed è tutto un susseguirsi di boschi alternati a pascoli, campi e villaggi. Il lato destro orografico è invece in ombra ed è tutto selva. Castagni e faggi. Tantissimi. Il Resegone è in alto, prolungamento naturale di questo versante. La montagna che da Lecco mostra la sommità merlata, a forma di sega, vista da qui è un morbido panettone. Linee aspre da una lato, delicate dall’altro. Un monte dalla doppia personalità.

Nel centro esatto del costone, in mezzo al bosco, sorge il Santuario della Madonna della Cornabusa, ricavato all’interno di una profonda grotta naturale in un punto a strapiombo. Il nome deriva proprio dalla cavità, che in bergamasco si dice corna busa, “roccia bucata”. Risale al ‘500 ed è diventato il punto di riferimento della valle, un luogo impervio e isolato, avvolto da un’atmosfera di mistica quiete.
Lo osservo in silenzio, da lontano, e mi sento come a casa.

Questa è una valle con una storia antica, che rischia di perdersi risucchiata dalla pianura e dalle sue modernità. Fino a pochi anni fa era abitata dai “Bergamini”, gli antichi pastori transumanti. Sono stati loro a creare lo stracchino con il latte delle vacche strache, cioè stanche, per via dei continui spostamenti in montagna. Lo stracchino – nato quasi per necessità – è diventato famoso in tutta Italia.

Il protagonista della puntata, Antonio, è il direttore del Centro Studi Valle Imagna. Oggi non parliamo di un prodotto e del suo artigiano, ma di un’istituzione e del suo territorio. La filosofia di Antonio e del Centro Studi è semplice, ma genera imprese ardite. L’obiettivo è valorizzare la valle attraverso il recupero della sua storia e dei suoi beni materiali. Antonio s’illumina quando mi spiega che gli oggetti della cultura materiale, come una castagna essiccata, un tetto in piöde, una forma di stracchino o il latte di una Bruna Alpina, sono le radici di un popolo: ne racchiudono la storia e l’identità, come i libri.

Per prima cosa, il Centro Studi ha iniziato a studiare. La valle e la sua gente, la lingua, l’alimentazione, il lavoro, la festa, la devozione. Poi ha cominciato a scrivere e a pubblicare testi. Sono nate dodici collane che comprendono oltre cento volumi: un patrimonio vivo di conoscenze della Valle Imagna. Ci sono libri fotografici, ricettari in lingua, saggi di botanica, antropologia e cultura materiale. Un mondo dove perdersi per poi ritrovarsi, migliori di prima. Antonio mi mostra uno splendido dizionario Italiano-Bergamasco in tre volumi del ‘700. Un’opera nata con l’intento di aprire le frontiere della valle e insegnare l’Italiano a un popolo che parlava solo il Bergamasco.
Recuperare quella pubblicazione significa recuperarne lo spirito.

Il Centro Studi Valle Imagna è riuscito poi ad acquistare l’antico borgo abbandonato della contrada Roncaglia. Fondata poco dopo il Mille, era stata abitata anche dagli avi di papa Giovanni XXIII. Il restauro della contrada ha ridato vita alle pietre dei muri, ai mattoni in cotto, agli assiti di castagno, ma soprattutto ai tetti in piöde, la specialità del posto assieme allo stracchino.

I tetti in piöde della Valle Imagna sono capolavori di architettura montana che stiamo perdendo. Fino a pochi decenni fa erano tutti così: oggi sono rarità che vale la pena di raccontare.
Intanto sono aguzzi, quasi verticali. Le lastre di ardesia sono sovrapposte ad arte, una sull’altra in modo che il peso e le loro forme, opportunamente scelte e perfezionate dallo scalpello del mastro, le tengano insieme impedendo alle intemperie di filtrare. Visti da sotto, i tetti in piödesono pieni di buchi: fanno girare l’aria e non lasciano passare l’acqua, il vento e la neve.

Nell’antico borgo è stata inoltre realizzata una locanda, aperta tutto l’anno, che offre da mangiare e da dormire nelle stanze arredate con i mobili tipici. La cucina propone solo piatti del luogo, con prodotti di casa.

Sara è la locandiera, Roberto il cuoco. Entrambi artigiani dell’accoglienza. Oggi è domenica e il ristorante è pieno, ma per noi hanno preparato qualcosa di speciale: gallina bollita con castagne e noci. Prima un assaggio di ravioli burro e salvia con le erbe selvatiche, poi un pizzico di risotto e ballotin, i tipici fagottini di polenta di farina grezza macinata a pietracon un cuore di stracchino. I ballotin si lasciano dorare sulla piastra del forno quel tanto che basta per creare una sottile crosta croccante all’esterno e sciogliere il formaggio all’interno. Sono deliziosi. Antonio mi racconta che erano sempre presenti in casa e quando si tornava da scuola erano la prima cosa che finiva sotto i denti affamati dei ragazzi.

Le castagne e lo stracchino erano la base dell’alimentazione in valle. Due veri pilastri della cultura locale. Insieme al Comune di Corna, il Centro Studi Valle Imagna ha costituito una cooperativa di piccoli allevatori che producono lo Strachì originale. Il caseificio è in paese, lungo una strada selciata perfettamente restaurata e davanti a un vecchio fienile con il caratteristico ingresso a forma di T: piccolo in basso – con appena lo spazio per le gambe del contadino – e grande in alto, per fare posto alla gerla del fieno. Una forma che è diventata il simbolo del Centro Studi e della sua contrada.

Uno degli edifici che si affacciano sulla corte del borgo è l‘essiccatoio delle castagne, il secadur, che il Centro Studi ha restaurato e rimesso in attività per recuperare anche quel tassello importante della vita in valle. Un camino con fuoco di legna di castagno e un graticcio posto di fronte, a un paio di metri di altezza. Si accende il fuoco e si dispongono le castagne. Poi si chiude la porta e si lascia tutto lì, a riposare. Il fuoco deve essere alimentato tre volte al giorno e la fiamma deve rimanere bassa ma costante. La castagna la gh’à de brasà, mia de brösà! Dopo una settimana, le castagne secche vengono sbucciate e sono pronte per essere macinate e diventare farina, oppure conservate e mangiate in ogni momento dell’anno, con quel buon gusto di affumicato che trasforma una necessità in specialità.

Come vedete, tutte le iniziative del Centro Studi Valle Imagna sono anche progetti di micro-economia. Tutti gli interventi producono reddito. Davide si toglie gli occhiali, guarda nella macchina da presa e dice una cosa di cui siamo tutti convinti: «I luoghi muoiono, se non generano benessere…».
Bene, adesso è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite in Valle Imagna, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

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L’arte della conservazione.

Oggi siamo in Campania. Il paese è Capaccio; il paesaggio, la Piana di Paestum. Le coordinate geografiche sono 40°23′ Nord e 15°3′ Est.

Massimo e io veniamo da Sud, dal Cilento, e per raggiungere Paestum attraversiamo i monti del Cilento. La strada è un continuo alternarsi di salite e discese e curve. A un tratto, il costone del monte di fronte a noi riflette un’intensa luce argentata. Sono olivi: centinaia di olivi con milioni di minuscole foglie luminescenti che brillano sotto il sole al tramonto.

Poi, quasi improvvisamente, i rilievi diventano pianura e i boschi orti. Siamo nella Piana di Paestum, l’antica Poseidonia.
Più tardi, passeggiando tra gli scavi, Davide dirà che in questo luogo che ha ispirato poeti e cantori, sono nati molti dei miti su cui fondiamo la nostra cultura.
Storie di tremila anni fa, narrate da uomini che vivevano d’arte, commercio e agricoltura.

Anche Francesco, il protagonista della puntata, ha l’agricoltura nel sangue. Il padre era un commerciante di ortaggi e lui, fin da bambino, ha imparato l’arte dei sapori. Poi si è dedicato a quella della conservazione. Prende i migliori prodotti della sua terra, li mette sott’olio e li fa viaggiare nel tempo. In questo, Francesco è un maestro.

Ci viene incontro davanti all’ingresso degli scavi. La nostra idea è registrare una parte della puntata tra le colonne del tempio di Zeus e i gradini di quello di Cerere. Ma non abbiamo i permessi e sebbene vengano a Paestum turisti e troupe da tutto il mondo, noi restiamo fuori dai cancelli. Solo Massimo, con la telecamera a mano, si unisce a un gruppo di anziane signore americane e registra alcuni contributi.

Francesco, invece, ci segnala un luogo alternativo posto di fronte alla stazione ferroviaria, senza ringhiere, né guardiani, né biglietterie.
Non mi dispiace allontanarmi dal recinto di Paestum. Preferisco i sassi e i cocci abbandonati, lontani dal passaggio dei turisti. Arrivando nella piana, mi aveva molto colpito il muro perimetrale del sito: chilometri di pietre tagliate e squadrate con esattezza euclidea. Lo dico a Francesco e vedo che s’illumina. Il punto che ha in mente è un arco che si apre proprio in quel muro e che delimita un grande orto. Niente folla, solo la piana di Paestum e le pietre dei Greci.

Davide imbraccia la sedia e accelera il passo. La stazione scompare alle sue spalle mentre lui sembra avanzare nel cuore di Poseidonia.
Quando allunga un braccio e indica la pianura che si perde all’orizzonte, ha di fronte un campo di carciofi.

Quella dei carciofini sott’olio è una delle specialità di Francesco. Tra poco andremo da lui e ci mostrerà i suoi celebri vasetti da 600 grammi che racchiudono 250 carciofini, più piccoli di un dito! Sembrano delle murrine e per confezionarne uno occorrono sei ore di lavoro!

In macchina, Francesco mi parla del padre e del suo mestiere di commerciante ortofrutticolo. Spiega che mentre gli abitanti della Piana di Paestum si dedicavano all’agricoltura, quelli del Cilento viaggiavano e commerciavano. Nel tempo era nata una sorta di “corporazione” di mercanti cilentani dell’ortofrutta: gente intraprendente, specializzata nella selezione e distribuzione dei prodotti della terra.
Ecco perché fin da ragazzino Francesco ha avuto dimestichezza con i campi e i raccolti: seguendo il padre aveva conosciuto i prodotti e i produttori, li aveva messi a confronto, ne aveva imparato i segreti.

La sua idea fissa era però la conservazione, l’arte di mantenere nel tempo i profumi e i sapori del luogo, come il carciofo di Paestum, il pomodoro giallo di Capaccio, il broccolo friariello, la cipolla ramata di Montoro, la zucca napoletana e il San Marzano, il pomodoro simbolo della nostra passata.
Al termine della puntata, Davide dirà che il segreto della pasta al pomodoro di molti chef stellati è proprio la passata di Francesco!

La sua casa-laboratorio è in una posizione incantevole: da un lato la piana con il mare sullo sfondo, dall’altro i monti, con pareti di roccia viva esposta al sole tutto il giorno. In primo piano ci sono due rilievi: il Monte Soprano – leggermente più alto e arretrato – e il Monte Sottano, più avanzato e basso. In mezzo la collina, e sulla collina un vigneto di Aglianico, il vitigno autoctono. I filari ben distanziati che scorrono lungo il pendio, l’aria umida del mare in faccia, le correnti calde che rimbalzano sul monte di spalle; e sulla testa – dall’alba al tramonto – la luce del sole. Immagino che quel vigneto produca un grande vino. Se fossi un acino di Aglianico, l’unico anno della mia vita mi piacerebbe passarlo lassù.

Durante le riprese, Davide attraversa un campo di pomodori gialli di Capaccio. Per la verità, passa prima sotto un fico e si ferma a gustarne un frutto. Massimo lo filma e sono sicuro che monterà la scena per mandarla in onda. Poi attraversa un filare di uva fragola e ancora si lascia tentare. Anche nel campo di pomodori, Davide si china sulla terra, raccoglie e mangia.
Quello di gustare è un gesto nobile: riconoscere alla terra la sua natura di madre.

Infine entriamo nel laboratorio di Francesco, dove tutto appare moderno, igienico, funzionale. Ma appena ci si ferma sui dettagli si capisce che le macchine, i banchi e le vasche sono solo il volto professionale di una cucina tradizionale, con i fuochi, le madie di legno, le pentole di rame. Non serve altro per fare buone conserve. Solo esperienza e pazienza.

Francesco ha recuperato e sviluppato antiche tecniche e ricette, perché ciò che la natura dona, l’arte della conservazione mantenga.
La cosa più difficile è la semplicità.

Al termine delle riprese, tutti ripartono e Francesco si butta nel lavoro che ha interrotto per noi. Io resto ancora un po’, in attesa di un treno per il Nord. All’ora di pranzo mi invita a mangiare insieme alla sua famiglia. In tavola, tra le pietanze, c’è anche del pane secco. Lui ne prende una fetta e la bagna in una ciotola d’acqua, poi taglia un pomodoro giallo fresco, lo appoggia sul pane e aggiunge un pizzico di sale e un filo d’olio.
La cosa più difficile è la semplicità…

Bene, adesso è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite anche voi a Capaccio, nella Piana di Paestum; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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La sincerità del vino.

Oggi siamo in Abruzzo. Il paese è Torano Nuovo, il paesaggio quello della Val Vibrata. Le coordinate geografiche sono 42°49′ Nord e 13°46′ Est.

Il viaggio comincia all’aeroporto di Genova, dove non prendo un aereo ma parcheggio lo scooter e salgo sulla macchina di Massimo, il nostro regista.

Insieme ci mettiamo in marcia: la Serravalle, Tortona, Piacenza, Bologna, la Riviera Adriatica. Poco dopo San Benedetto del Tronto lasciamo l’autostrada e il litorale per addentrarci in questa terra compresa tra l’Adriatico, il Gran Sasso e la Maiella. La strada sale lungo costoni di roccia viva tufacea e porta su un altipiano sormontato da colline: lievi ondulazioni del terreno ricoperte da vigneti. È la terra del Montepulciano d’Abruzzo e del Trebbiano: un luogo argilloso, con forti escursioni termiche, tanto vento e molto sole.

«L’ideale per la vigna e il vino,» dirà Davide domani, guardando negli occhi il pubblico a casa, oltre la telecamera di Massimo.
Arriviamo a Tornano Nuovo giusto in tempo per pranzare. Ci accoglie un’insegna di buon auspicio: «La sosta».
Antipasto di salumi e formaggi, un primo di ravioli al ragù e un pollo ruspante con le patate al forno. Buon Montepulciano d’Abruzzo e pane di casa. Siamo entrati con il sole e usciamo con la pioggia. Il tempo è cambiato, ma quasi non ce ne accorgiamo. Soddisfatti e pieni di energie ci presentiamo nella tenuta di Emidio, un grande viticoltore che da cinquant’anni produce il Montepulciano d’Abruzzo in maniera rigorosamente biologica.

Arriva anche Davide, indossa l’abito di scena ed è subito pronto. Iniziamo le riprese nella cantina di Emidio e della sua famiglia: un luogo che merita un’attenzione speciale.
Ci sono 350.000 bottiglie, dal ’64 a oggi, che annata dopo annata raccontano la storia del Montepulciano. All’inizio era considerato un vino facile, da consumare giovane, entro l’anno. Emidio invece parlava alle sue viti ed era convinto che con l’aiuto della natura gli avrebbero dato un prodotto di grande corpo e carattere, capace di invecchiare dieci, venti, trent’anni e oltre. I vecchi del posto e gli amici lo prendevano un po’ in giro, ma lui insisteva e non abbandonava la sfida. Col tempo ha creato una vera scuola di pensiero, una specie di filosofia del vino e della vita, misto di sincerità, semplicità e genuinità.

Domani, con la sedia tra i filari, Davide spiegherà che «Emidio rispetta la vite come una persona e l’accompagna mentre la natura la fa crescere; perché è la natura che dà carattere al vino e mette il suo marchio sull’etichetta di ogni bottiglia!»

Nella cantina di Emidio sono ordinatamente disposti filari di bottiglie di quasi tutte le annate. Sembrano la tastiera di un pianoforte che corre verso l’infinito. Alcune annate però mancano e domando perché. Sofia, la figlia di Emidio che ha ormai raccolto l’eredità del padre, mi spiega che in certe stagioni di maltempo – come ad esempio l’86, il ’94 e il ’96 – Emidio ha scelto di non produrre vino!

La sua filosofia è molto semplice, ma come tutte le cose semplici è difficile. In vigna non usa alcun prodotto chimico, vendemmia a mano, diraspa sempre manualmente il Montepulciano e pigia con i piedi il Trebbiano, poi vinifica nel cemento e imbottiglia senza filtrazioni. Lascia invecchiare nel vetro e prima di mettere il vino in commercio lo decanta a mano, bottiglia per bottiglia.
Davvero difficile, questa semplicità!

Domani, quando il sole splenderà sulle colline della Val Vibrata, Davide spiegherà che la raccolta e la successiva diraspatura permettono di mantenere intatti gli acini, in modo che i raspi non vengano strappati e non si mescolino all’uva, portando acidità.

Vedere Davide che diraspa con Daniela, la sorella di Sofia, è uno spettacolo. Si dispongono ai lati di una grande setaccio e spingono i grappoli l’uno verso l’altra finché tutti gli acini sono caduti nel tino e sulla rete sono rimasti solo i raspi. Massimo s’inventa una ripresa dal basso, con un vetro per proteggere l’obiettivo. Un’immagine in controluce che sembra racchiudere l’anima di questa produzione artigianale: gli acini d’uva maturi, il lavoro delle mani e delle braccia, la luce del sole.

Uno spettacolo ancora più coinvolgente è vedere tutta la famiglia di Emidio riunita che indossa gli stivali e pigia il Trebbiano con i piedi.
Non è folclore, come si potrebbe pensare, ma una precisa scelta di produzione, necessaria per estrarre solo il succo degli acini maturi, senza che i raspi e i frutti acerbi finiscano nel mosto. Occorre evitare l’acidità e dare al vino – fin dall’inizio del suo cammino – quelle caratteristiche di armonia e di equilibrio che lo renderanno pregiato.

Emidio mi spiega che si tratta di non commettere errori e di partire subito con il piede giusto. Fare all’inizio le cose che servono, per non intervenire dopo, magari con la chimica.

Infine, l’uso delle vasche in cemento vetrificato permette al vino di riposare e maturare serenamente, lontano dalla luce e dai rumori. Emidio non ama il legno delle botti perché altera il sapore e i profumi del vino. Ma anche l’acciaio non va bene. Le pareti sono sottili, come quelle dei moderni appartamenti. All’interno il vino non si rilassa mai, si agita e resta torbido.

Nelle botti di cemento vetrificato, invece, riposa come un essere umano in una casa confortevole. Dopo soli due mesi, lascia cadere sul fondo il deposito ed è perfettamente trasparente.

Nella penombra della cantina buia, Davide si avvicina a una botte e spilla un po’ di vino. In controluce si vede la trasparenza assoluta, l’assenza di sospensione e la calma interiore del giovane Trebbiano. Non è ancora pronto, ma è già sincero!
Terminato l’invecchiamento nel cemento, il vino viene imbottigliato senza filtrazioni. Poi andrà in cantina e invecchierà per anni e anni, anche cinquanta.

Quando poi sarà messo in commercio, la moglie di Emidio lo decanterà a mano. L’ultimo tocco sarà l’etichetta, che dopo mezzo secolo di vendemmie non è mai cambiata. Anche questo è un segno di continuità e sincerità.

Al termine delle riprese ci fermiamo a tavola, in famiglia. I piatti sono quelli del luogo, anche loro genuini e pieni di vita come il vino che li accompagna. Assaggiamo le mazzarelle, interiora di agnello finemente lavorate e racchiuse in foglie di lattuga cotta, spaghetti alla chitarra, formaggio fritto e dolci di casa. Ogni portata è accompagnata da un vino diverso, ben presentato da Chiara, l’altra donna di famiglia. È la figlia di Daniela e ha poco più di vent’anni; è già sommelier, parla le lingue e attraversa i continenti per promuovere i vini del nonno.

Emidio ci racconta che un tempo metteva le bottiglie in valigia e portava i suoi vini in giro per il mondo; oggi sono loro che fanno viaggiare lui e la sua famiglia.
Questa è l’Italia della qualità!

Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venite a Torano Nuovo, in Val Vibrata; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Le Brigasche transumanti.

Oggi siamo in Liguria. Il paese è Mendatica, il paesaggio quello delle Alpi Liguri. Le coordinate geografiche sono 44°4′ Nord e 7°47′ Est.

In realtà, oggi i “paesi, paesaggi” sono due: Mendatica e le Alpi Liguri, Bastia e la Piana di Albenga. È proprio a Bastia, un piccolo borgo sul fiume Centa, circondato di serre, fiori e ortaggi, che incontriamo Aldo, il protagonista della puntata.

Aldo è un pastore che si dedica all’allevamento della pecora Brigasca, la razza tipica delle Alpi Liguri, ormai a rischio di estinzione. Il suo gregge conta quasi mille capi e vive appunto a Bastia, in riva al mare, ma ogni anno – da giugno a ottobre – sale sui monti.

Aldo è infatti uno degli ultimi pastori che pratica la transumanza, rigorosamente a piedi.

Insieme a lui, iniziamo il viaggio. Davide attacca la salita sulle rive del Centa e dell’Arroscia, i piedi saldi sul terreno e la sedia in spalla. Massimo – il nostro regista – è del posto e conosce le curve giuste per celebrare il rito della transumanza.

Saliamo fino a Mendatica; altre due inquadrature e poi su, sempre più in alto, alla ricerca delle ultime pecore Brigasche. Raggiungiamo Monesi, una piccola stazione sciistica ormai in disarmo. Qui il bosco si dirada ai lati della strada e dopo poco si dirada anche la strada. Dopo i 1500 metri di quota procediamo sullo sterrato.

Nella notte deve aver piovuto selvaggiamente, perché il tratturo è un fiume di acqua e fango che risaliamo con i nostri precari mezzi di città. Aldo guida il gruppo a bordo del furgone e io lo seguo con la mia auto famigliare a debita distanza, con Davide seduto accanto a me che evita di guardare in basso. Soffre di vertigini.

Il paesaggio cattura lo sguardo, con densi banchi di nebbia che si muovono nervosi, spinti da un vento imprevedibile. Ci sono tratti di sentiero dove si procede al buio e momenti dove invece la vista spazia fin quasi al mare. Appena raggiungiamo il pascolo e scendiamo dalle macchine, Davide pronuncia la frase di rito: «La luce oggi è bellissima!»

Le pecore pascolano sul costone di fronte a noi. Aldo le chiama e a poco a poco il gregge si muove, accompagnato dai cani. All’inizio il movimento del branco è stentato, ma una volta che le pecore si mettono in moto sono inarrestabili. Scendono il pendio e raggiungono la piccola piana dove abbiamo deciso di effettuare le riprese. Davide cammina sbucando dalla nebbia, posa la sedia a terra e viene circondato dal gregge.
Ride ed esclama: «Ecco, qui mi sento come a casa!»

Questo scenario incontaminato, che il lupo è tornato a frequentare con assiduità, fa da sfondo alla storia di Aldo. Lui è nato pastore, figlio di un allevatore di pecore che dalla Sicilia è emigrato in Liguria dopo la guerra, portando il suo gregge in treno.
Da lui Aldo ha appreso l’arte dell’allevamento e della lavorazione del latte. Ma è andato oltre, salvando dall’estinzione la pecora tipica delle Alpi Liguri e continuando con ostinazione a praticare la transumanza a piedi.

Il risultato è straordinario, ma la fatica tanta, tantissima. Una fatica che potrebbe sembrare senza senso. Le normative gli impediscono di realizzare un alpeggio fisso in montagna, che offra un rifugio confortevole per i pastori e i turisti di passaggio e che possa essere utilizzato come centro di raccolta e prima lavorazione del latte. Invece, ogni giorno, Aldo è costretto a ripetere una sorta di transumanza inversa e solitaria, portando in macchina a Bastia il latte appena munto sul Monte Saccarello. Ogni giorno l’avventura di questa mattina, sulle pietre del sentiero, il fiume di fango, la nebbia che appare e scompare. Ma non è sempre così, talvolta è anche peggio!

Però Aldo tenacemente prosegue nella sua attività nomade. Lo premiano la qualità dei suoi prodotti e l’intensità della sua vita.

Giunti quasi al termine delle riprese, Davide prende un po’ di sale per familiarizzare ulteriormente con le Brigasche. Ormai lui e il gregge sono in confidenza: parlano la stessa lingua, il Brigasco, l’idioma storico di queste terre occitane che deriva dalla lingua d’Oc. Attirate dal sale e dalle parole di Davide, le pecore lo travolgono e quasi gli spostano la sedia. Quando alla fine si alza e s’incammina verso valle è «davvero tempo di andare!»

Le pecore lo seguono e i cani pure, abbaiando al gregge e al nuovo pastore. Davide sparisce nel bianco lattiginoso della nebbia, mentre Aldo interviene e con un paio di richiami raduna gli animali e li indirizza verso il pascolo del mattino.

La giornata è ancora lunga. Dobbiamo scendere a Bastia per registrare le scene di lavorazione del latte ed esplorare la cantina di affinamento dei formaggi. Ma prima è d’obbligo una sosta a San Bernardo, a 1247 metri di quota.

Pensiamo di pranzare con qualcosa di leggero, magari un piatto di salumi, del formaggio e un pezzo di pane casereccio bagnato nel vino. Invece ci attende la Cucina Bianca, cioè la cultura del luogo tradotta in cibo; una lingua che parla ai sensi, misto di Ligure e Italiano, Brigasco e Occitano, aria calda e umida di mare intrisa di correnti fredde di montagna. Tutto rigorosamente bianco, perché bianchi sono i farinacei, i latticini, le patate, i porri, l’aglio, le rape, la scorzonera e mille erbe selvatiche che crescono spontanee sui sentieri della transumanza.
Ci sediamo a tavola affamati, ci alziamo affaticati. Però felici, ed è già molto.

Siamo a Bastia nel mezzo del pomeriggio. Chiediamo ad Aldo di portare alcune pecore rimaste in valle sulle rive del Centa, per vedere dove vivono durante l’anno. Per me è un momento particolare, perché da ragazzino questo fiume è stato il mio campo giochi. Qui scappavo di casa e venivo a pescare i cavedani che la signorina Livia – l’anziana zitella vicina di casa – cucinava in carpione. Nelle pozze dove io pescavo, Aldo pascolava le pecore con il padre. Allora non ci conoscevamo, lui siciliano di Bastia, io milanese di Lusignano. Adesso però si è chiuso un cerchio. Quanti ricordi sulle rive del Centa, il fiume più piccolo d’Italia, appena tre chilometri da Bastia ad Albenga, dall’ovile di Aldo al mare della Gallinara.

I formaggi di pecora Brigasca sono eccellenti e meritano un’attenzione particolare. È il mestiere di Davide, queste cose lui le sa fare bene. Allestiamo un piccolo tavolo da degustazione nel fienile, mentre Aldo sceglie alcune forme. Prende una toma di Brigasca di un anno e un’altra di tre anni e mezzo, poi la Sora, il tipico formaggio di pecora delle Alpi Liguri e un vaso colmo di ricotta di Brigasca, gustosa e ricca di calcio.

Davide si perde in quel mondo di sapori, mentre il sole tramonta oltre la piana di Albenga, la Valle Arroscia, Mendatica, Monesi e il Monte Saccarello, dove il gregge di Aldo si quieta e riposa, in attesa di un nuovo giorno.
Bene, ora è tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Fate come il gregge di Aldo: venite a Mendatica, sulle Alpi Liguri, e poi scendete a Bastia, nella Piana di Albenga; ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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