Archive for giugno, 2014

Gli olivi di Dante.

Oggi siamo nelle Marche; il paese è Serrungarina, il paesaggio quello della Valle del Metauro.
Incontro Davide a Milano, in piazza Cadorna. È mattino, neanche tanto presto. Dopo tre ore di chiacchiere filate, raggiungiamo l’uscita di Fano. Le previsioni minacciano brutto tempo e invece la giornata è scintillante. Il cielo si mantiene terso, spazzolato di continuo da un vento fresco che increspa il mare e accarezza le spighe di grano.

Le colline che costeggiano il Metauro sono coperte di macchie boschive e campi coltivati, interrotti ogni tanto da fattorie e borghi. Già a prima vista colpisce la qualità del territorio, privo di sbavature, segno di una felice armonia tra gli esseri umani e la natura circostante. Procediamo lentamente, continuando a salire e scendere lungo la direttrice della Flaminia, l’antica consolare che portava da Roma all’Adriatico.

Per secoli, questa è stata una grande via di transito. Una strada veloce, quasi tutta rettilinea, e proprio per questo piena di ponti, viadotti e opere di ingegneria civile. Lungo il tragitto, scandito dalla regolare successione di pietre miliari, si trovavano grandi mansiones per i facoltosi viaggiatori, tabernae per i più modesti viandanti e mutationes per gli animali, dove riparare i carri e foraggiare le bestie. Da queste antiche “stazioni di servizio” sono nati i villaggi della valle, come ad esempio Tavernelle, dove siamo diretti per incontrare gli amici di Striscia.

Da lì, andremo tutti a Serrungarina, da Giuliano e dai suoi ulivi, protagonisti della puntata. In soli due chilometri e mezzo, da Tavernelle a Serrungarina, cambia tutto. Questa è la magia del territorio italiano. In basso la stazione di posta, aperta e accessibile, in alto un borgo arroccato, progettato per difendere il territorio di Fano dei Malatesta.

In mezzo gli ulivi. Un orto impregnato di mistica quiete. Giuliano ci guida lungo le mura della città. Davide lo segue lentamente con la sedia in spalla e raggiunge un angolo delle fortificazioni da cui la vista spazia sulle colline.

Giuliano mi racconta che fu proprio all’interno di queste mura che nel Quattrocento i Malatesta sconfissero le milizie del Papa. Sigismondo Malatesta contro Papa Eugenio IV, per l’esattezza.

Parlare di Papi con Giuliano è un’esperienza unica. Ha lavorato tutta la vita in Vaticano, come responsabile della sicurezza. Da Paolo VI a Giovanni Paolo II, lui era l’uomo che correva accanto alle loro auto, quando salutavano le folle e quando cadevano sotto i colpi degli attentatori. Una vita ad alta tensione, poi la pace di questa terra sospesa nel tempo.

Lasciamo il borgo e raggiungiamo il fiume, prima di risalire tra gli ulivi. Troviamo un buon punto per le riprese, nei pressi di un grande ponte. La strada e l’acqua sembrano un insieme compatto. Non è un’illusione ottica, il livello del fiume è altissimo.
«È in piena?» chiedo a Giuliano.
Lui scuote la testa.
«Gli ambientalisti…»
«Gli ambientalisti?»
«Il letto del fiume è profondo quasi dieci metri,» mi spiega, «ma nel corso del tempo si è alzato. Adesso sarebbe da dragare, ma questo distruggerebbe l’ecosistema che si è creato. Gli ambientalisti si oppongono e hanno le loro ragioni, però così il Metauro è troppo alto…»

Alessandro, suo figlio, mi mostra i campi alle nostre spalle e dice che quest’inverno erano tutti sommersi d’acqua.
Davide cammina sulla riva del fiume, saluta i pescatori nel canneto e si allontana con la sedia in spalla. Si dirige verso il campo di ulivi, dove finalmente dirà: «Qui mi sento come a casa».

Gli ulivi di Giuliano sono tremila. Una coltivazione rigorosamente biologica; anzi, più che biologica! Il campo è infatti circondato da un fitto bosco di querce che gli insetti e i parassiti non riescono ad attraversare.
«Altro che veleni…», esclama Davide guardando la telecamera, «qui ci pensa la natura!»

La raccolta avviene a mano, con un piccolo rastrello, per non rovinare la pianta e i suoi frutti.
«Vedi,» mi spiega Giuliano, «la natura ha una sua perfezione, che noi possiamo solo guastare. Se vuoi fare un olio davvero di eccellenza, devi pensare che dal momento in cui stacchi l’oliva dalla pianta, la qualità inizia a peggiorare».

Gli chiedo cosa significhi e lui mi dice che è questione di tempi e di modi. La raccolta si svolge verso la metà di ottobre, seguendo il diverso grado di maturazione delle olive, e la spremitura avviene entro 24 ore. All’interno dell’azienda, Giuliano ha realizzato un frantoiocon un impianto a ciclo continuo senza i “fiscoli” – i tradizionali filtri che spesso si intasano di polpa di olive – che gli garantisce la massima qualità del prodotto finale, sia igienica sia gustativa. L’olio nuovo viene poi conservato in botti di acciaio a temperatura controllata e imbottigliato solo al momento dell’ordine.

Davide ama l’olio ed è un profondo conoscitore di questo prezioso alimento della cultura mediterranea. Durante una pausa chiede alla moglie di Giuliano un cucchiaio e inizia ad assaggiare. I suoi gesti sono semplici ma precisi, sembrano quelli di un sommelier: osserva il colore, la densità, poi l’aroma e infine il gusto, lasciando che il sapore dell’olio accarezzi il palato e svanisca lentamente, lasciando in bocca il ricordo di sé. Ottimo. Gli offro un pezzo di pane, ma lui rifiuta. Riempie nuovamente il cucchiaio e continua la sua personale degustazione.

Se l’olio biologico è il cuore della produzione di Giuliano, il suo prodotto più innovativo è invece il liquor d’ulivi, una specialità di cui parlava già Dante nel Paradiso. Siamo nel canto XXI, quando san Pier Damiani, monaco e priore del monastero di Fonte Avellana, sulle pendici del Monte Catria, a pochi chilometri dagli ulivi di Giuliano, diceva: «Quivi al servigio di Dio mi fei sì fermo, che pur con cibi di liquor d’ulivi lievemente passava caldi e geli, contento ne’ pensier contemplativi».

Dal Trecento a oggi, il liquor d’ulivi s’era smarrito nelle pieghe del tempo, finché Giuliano venne a conoscenza di un’antica e misteriosa ricetta. Provò a realizzarla una volta messi a dimora i suoi ulivi, e per anni continuò a fare esperimenti, prove e tentativi.

La ricetta rimane segreta, per questo non è brevettata. «Se la dichiaro,» mi dice Giuliano, «basterebbe mettere un grammo in più o in meno di uno degli ingredienti, per fare un prodotto uguale e non avere problemi!»

Dell’ulivo c’è la corteccia, che viene pelata come la buccia di una patata, poi le foglie, intere o sminuzzate, naturalmente alcol per l’infusione e poi zucchero e aromi naturali come bucce di agrumi.

Per la gioia della nostra telecamera, Giuliano abbozza il rito della preparazione. Un riassunto per sommi capi, tanto per dare l’idea. Alla fine, il risultato è sorprendente; un liquore dalle virtù digestive, di colore ambrato, dal dolce sapore balsamico, con un leggero sottofondo amarognolo ad una gradazione alcolica di 30 gradi.

Lascia il palato pulitissimo e si può gustare al naturale, fresco o con ghiaccio d’estate oppure caldo in inverno, con una fettina di limone. Giuliano assicura che è ottimo anche sul gelato, sulle crepes e nei cocktail. C’è da credergli. E poi, è forse l’unico liquore al mondo veramente biologico!

Con un bicchiere in mano e la sedia in spalla, Davide cammina lungo i filari di ulivi. In alto, il tramonto dilaga nel cielo limpido mentre in basso il viale s’interrompe davanti alle mura del convento di San Francesco. È proprio qui che nel 1219 il santo aveva soggiornato prima di partire per la Terra Santa.
«Magari bevendo un sorso di liquor d’ulivi…» abbozza Davide, assaporando ancora un goccio di liquore.
«Venite nella Valle del Metauro,» dice chiudendo la sedia e allontanandosi verso nuovi paesi e nuovi paesaggi. «Ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!»

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Il miele in barrique.

Oggi siamo nelle Marche; il paese è Fabriano, il paesaggio quello dell’Appennino Umbro-Marchigiano.
Arriviamo nella notte e andiamo subito a dormire. Domattina presto, prima di lavorare, andrò a correre. Giusto una sgambata sulle colline intorno alla città, nel regno della  carta e degli elettrodomestici, tanto per farmi un’idea del territorio.
Spesso, sudare aiuta a capire.

Quando mi alzo dal letto, il sole è già alto e la luce abbagliante. Maglietta, pantaloncini e via, lungo solitarie strade di campagna che s’inerpicano sui colli. La città è ancora addormentata, ma la natura è già in pieno fermento. Penso alle api di Giorgio, che incontreremo tra poco. La sua azienda è posta proprio su uno di questi rilievi.

Mi colpisce la pulizia del paesaggio. Tutto è delimitato in maniera precisa, come le celle di un alveare. I campi e i boschi si distendono sulle curve del terreno senza mai confondersi. L’occhio scivola continuamente dal particolare al generale e viceversa. Correndo, guardo spesso in basso e osservo lo scorrere del ciglio della strada. Dove l’asfalto finisce, comincia il prato. Non esistono quei confini sfumati – così comuni in Italia – fatti di fango e terra di riporto, cartacce gettate dall’uomo e sparse dal vento, oggetti finiti per sbaglio ai margini della via.

Fabriano era uno dei comuni più ricchi d’Italia; oggi invece un quarto della popolazione è senza lavoro e un altro quarto è in cassa integrazione. Eppure, a vederlo da lontano, il paesaggio non mostra ferite.
È come se la campagna gridasse la sua bellezza, soffocando i lamenti dell’industria.

Forse, il futuro di Fabriano è proprio nella terra. Giorgio lo ha cercato lì, nell’estate del 2002, in compagnia di uno sciame di api.
La sua storia inizia subito dopo la laurea in agraria. Il padre gli regalò due arnie e gli chiese di occuparsene. Un regalo insolito, che gli cambiò la vita.

Dopo un’estate con le api, la passione divenne un mestieree Giorgio decise che quello sarebbe stato il suo mondo. Un mondo piccolo, ma affascinante, quasi ipnotico. C’è da perdersi tra le regole della comunità, i dialoghi intessuti a colpi d’ali, i voli di lavoro e di riproduzione delle operaie, dei fuchi, delle regine…
Un’antica leggenda celtica dice che le api sono portatrici di saggezza e quando un’ape entra in casa significa che sta per arrivare uno sconosciuto.

Quando parcheggiamo la macchina davanti alla casa di Giorgio, c’è qualcosa che vola dietro il vetro della cucina…
L’abitazione è posta sul crinale della collina, ben inquadrata nel territorio tra due campi di grano. Massimo e io passeggiamo in cerca del luogo dove posizionare la sedia di Davide. Risaliamo la china del monte camminando lungo il bordo di un campo in forte pendenza, passiamo accanto a una decina di arnie e ridiscendiamo verso valle. Di fronte a noi una distesa di colline, accarezzate dal vento che smuove i campi. Onde d’aria e piante.

Poco più avanti, si allunga una terrazza naturale affacciata sulla valle; Massimo la raggiunge correndo. Passa davanti a una fila di arnie, sempre correndo e gesticolando e chiamando a gran voce. Il posto gli piace, vorrebbe mettere lì la sedia.

Giorgio e suo fratello Francesco tacciono. Temono il peggio.
Però non succede nulla, e quando Massimo torna da noi esclama: «Quello è il posto!»
Nessuna puntura. Giorgio e Francesco respirano. Oggi le api sono molto calme.

Lo sciame conduce una vita semplice, scandita da ritmi precisi e azioni sempre uguali. Quando il morale della colonia è alto, le api lavorano e sono serene. Quando invece intorno a loro accade qualcosa di inatteso, si agitano e diventano imprevedibili. Allora bisogna fare attenzione.

Davide apre la sedia e dice: «Qui mi sento come a casa».
Poi allunga il braccio indicando un campo di grano e spiega che l’attività di Giorgio è iniziata con la produzione del miele di Stachys.

Lo Stachys officinalis è un’erba spontanea che cresce quasi esclusivamente nella zona di Fabriano. Dopo la trebbiatura del grano, si attende la pioggia di luglio. Lo Stachys cresce tra le stoppie, sapientemente lasciate sul campo. Dal suo nettare, le api creano un miele unico e prezioso. Una produzione di alta qualità, limitata dalla territorialità e dai tempi dei cicli agricoli.

Davide lo assaggia e ne apprezza la cristallizzazione chiara, l’aspetto maculato e il sapore dolce, piacevole al palato. Poi si alza e s’incammina verso le arnie. La sceneggiatura prevede l’incontro con le api.

Davide e Massimo indossano la giacca, i guanti e il casco di protezione, poi seguono Giorgio dietro le arnie. L’apicoltore sparge po’ di fumo per quietare le api, solleva il coperchio ed estrae un telaio. Io sono dietro di lui, a qualche metro di distanza, senza protezioni. Ma c’è Francesco, accanto a me.
«Guarda, oggi sono calmissime…» mi rassicura a bassa voce.

Mi avvicino ancora di un passo. Il richiamo delle api è irresistibile. Un altro passo, poi due, poi tre. Se allungassi il braccio, potrei toccarle. Invece scatto delle fotografie.
Le api non volano, sono tutte sulle celle. Sembrano ferme, ma sono in continuo movimento. Sono tantissime, una attaccata all’altra. Una massa scura compatta che diventa di colpo dorata appena Davide ruota il telaio in favore della luce.

Siamo entrati nel loro mondo. Il solo osservarle, fa bene allo spirito. Il tempo perde di significato e si dilata nell’infinita successione dei loro movimenti. Un’operosità terapeutica, un dono di serenità.
«In genere, il miele ha una connotazione quasi farmaceutica,» mi dice Giorgio togliendosi il casco, «invece è un alimento con infinite varianti di gusto e di abbinamenti con altri cibi».

Adesso ha quasi 300 arnie, non usa antibiotici e di ogni produzione tiene solo il cuore del miele, eliminando la testa e la coda. Ma c’è di più. Gli studi di agraria, la passione per il vino, l’osservazione attenta della natura gli hanno suggerito un’idea antica e al tempo stesso innovativa: l’affinamento del miele di acacia in barrique.

«Il futuro ha radici profonde,» mi dice Giorgio mentre entriamo in cantina. «Nessuno inventa niente; tutto è trasformazione. Siamo come gli alchimisti, dei trasformatori…».
Penso ancora una volta alla figura dell’agricoltore quando è anche un artigiano e un artista, capace di grandi innovazioni semplicemente trasformando ciò che la natura gli offre.

Dopo anni di sperimentazioni e di tentativi, oggi il miele in barrique di Giorgio è il prodotto di punta dell’azienda. Si produce nel mese di maggio ed è un miele molto fluido, con il profumo intenso del vino cotto.
Davide lo assaggia e si perde nel connubio di legno e miele che sprigiona sentori di cuoio e tabacco, con un retrogusto dolce e pulito. Poi guarda nella macchina da presa e dice: «Giorgio ha messo a punto una procedura che prevede un invecchiamento di nove mesi con quattro diversi passaggi in botti di rovere francesi, come nei distillati. Al termine dei nove mesi, è come se fosse nato un figlio…».

Bene, è quasi tempo di andare, ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Ma prima di sederci a tavola, andiamo a Fabriano e voliamo sui monumenti come fanno le api di fiore in fiore. La telecamera si sposta da un campanile a una chiesa e si posa sulla fontana Sturinalto, di fronte al Palazzo del Podestà. Davide immerge la mano nell’acqua e finge di bere, poi s’incammina verso il Duomo. È appena finita la messa; oggi è giorno di Comunioni. Lungo la discesa ripida e lastricata corrono alcune bimbe con le tuniche bianche indosso; le loro madri invece arrancano lente sui ciottoli del corso sforzandosi di rimanere in equilibrio sui tacchi. Si aggrappano alle braccia dei mariti. Qualcuna riconosce Davide e la sua sedia.

«C’è Striscia!» esclamano. Cadere adesso sarebbe sconveniente.
Davide sorride e tira dritto, verso la Cattedrale di San Venanzio. Lo raggiungo mentre Massimo termina le riprese. Il Duomo di Fabriano è un edificio di pregio, di origini incerte ma molto antiche. L’interno presenta una grande navata centrale con una serie di cappelle laterali. La chiesa è grande, eppure raccolta; riccamente decorata, eppure sobria. Mentre Davide mi mostra gli affreschi e gli stucchi, suonano le campane; è tempo di andare. A casa di Giorgio ci aspetta la sua famiglia, con la pasta al forno, i formaggi, gli affettati, il miele…
Venite a Fabriano, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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