Archive for marzo, 2014

Note di birra.

Oggi siamo in Emilia-Romagna. Il paese è Roncole di Busseto, il paesaggio quella della Bassa Padana.
Sono qui con Davide, in piedi, immobile nel piazzale di fronte alla casa di Giuseppe Verdi. In fondo alla strada vediamo l’auto di Massimo che procede verso di noi. Un sorriso, un cenno della mano, poi lui accelera e sterza bruscamente.

Il botto è inatteso. Un tonfo sordo di ferro e gomma e aria compressa che si avventano sul rilievo del marciapiede…
Molti anni fa, durante un colloquio di lavoro, un celebre direttore creativo mi disse una cosa che non ho mai dimenticato: «Gli oggetti vedono e sentono tutto, non dimenticano niente e parlano a chi li sa ascoltare. Quando fai un colloquio di lavoro, per capire se quel posto va bene per te, non ascoltare le persone ma i muri!»

Aveva ragione; gli oggetti assistono alle vicende umane e registrano anche i segnali più deboli. Nulla sfugge alla memoria delle cose.
Da oggi in poi, gli alberi che guardano la casa di Giuseppe Verdi e i muri del bar di Giovannino Guareschi non ricorderanno solo le arie del maestro e le frasi dello scrittore, ma anche il dolore della ruota di Massimo, le sue imprecazioni, le telefonate alla ricerca di un gommista il sabato mattina nel cuore nebbioso della Bassa Padana.

Manuel e Giovanni ci vengono incontro. Il padre di Manuel individua anche un meccanico disposto a «dare un’occhiata» alla macchina del nostro regista. Le cose si mettono bene e dalla campagna giunge l’eco della forza del destino. Poche note appena abbozzate che ci suggeriscono d’iniziare a lavorare.

Decidiamo che l’anima di questo territorio sarà un luogo sulle rive del Po. Il fiume è la chiave di questa zona, capace di regalare emozioni che emergono da una coltre di apparente anonimato.
Davide – che ama la Bassa Padana – sceglie con cura un’ansa del fiume con gli arbusti di spalle e l’acqua sempre presente. Acqua corrente, sonora come un basso continuo; un moto perpetuo di ricordi e pensieri che scivolano da monte a valle. Li registriamo tutti, mentre Davide dice: «Ecco, qui mi sento come a casa! Siamo sulle rive del Po. Per secoli, questa è stata una terra d’acqua: distese d’acquitrini strappati al grande fiume. Una terra fertile, calda e umida; spesso nebbiosa e misteriosa…».

Non oggi, però! La foschia del primo mattino si è dissolta e la luce del sole è abbagliante. Nella macchina da presa tutto si deposita nitido e brillante, come fossimo su un ghiacciaio alpino. I monti di Bergamo e Brescia sono proprio lì, di fronte a noi, e sembrano vicinissimi.

Giovanni è il protagonista della puntata insieme a Manuel. Sono due amici che nel 2006 hanno deciso di trasformare la loro passione in un’impresa. Manuel si occupava di logistica nel settore alimentare mentre Giovanni era un aspirante birraio con una naturale inclinazione per le questioni umanistiche.

Gli studi di agraria lo avevano reso un tecnico di cibi e bevande anche quando era un dilettante. Poi l’amore per i luppoli e i lieviti è diventato un mestiere. Così, la professionalità si è messa al servizio della passione, la ragione al fianco del cuore.

Troviamo continuamente punti di contatto. Giovanni è stato allevato dal padre alla scuola del cinema. Anche per lui, all’origine di tutto c’è la parola. La narrazione è una grande rete di sostegno delle cose del mondo.

«Fare birra è un atto creativo, come dipingere o suonare,» mi dice mostrandomi alcune delle sue creazioni. «La birra la fanno i lieviti,» continua Giovanni, «ma è la creatività del birraio che li guida e li ispira».

Le sue birre sono le più premiate al mondo e ognuna ha una storia da raccontare. Nascono da emozioni racchiuse nello spazio di un boccale.
La sua idea di riferimento è l’equilibrio. Un concetto sfumato, di cui tanti parlano ma che pochi realizzano.

Molti cercano di fare una birra sensazionale, che stupisca al primo sorso. Le birre di Giovanni devono invece piacere fin dal primo sorso, e poi continuare ad appagare il naturale bisogno di equilibrio degli esseri umani.
«Come la musica immortale di Verdi,» aggiungo io.
«Come la musica immortale di Mozart,» precisa lui.

Davide ci ascolta e sorride. Poi guarda nella macchina da presa ed esclama: «Le birre di Giovanni sono diverse da tutte ma godibili da tutti; puro piacere dal primo all’ultimo sorso!»
Le bevono anche i contadini tedeschi che da generazioni coltivano il luppolo. Le espongono con orgoglio sui davanzali delle finestre e affermano che siano le uniche dove ritrovano i profumi e i sapori della loro materia prima.

«Che senso ha coltivare il luppolo dietro casa», mi domanda Giovanni, «se poi devo ammazzarlo di chimica per tenerlo in vita?»
Giusto. Meglio abbandonare il concetto di filiera corta se diventa un mito da inseguire a tutti i costi. Meglio cercare altre forme di dialogo con la terra e i suoi frutti.

Nel birrificio di Giovanni e Manuel, ad esempio, c’è una cantina dove alcune birre invecchiano in botti di rovere che erano state usate per affinare grandi vini, whisky o liquori. Una di queste birre speciali matura addirittura trenta mesi in botti di Amarone. Ha una vita di cinquant’anni e andrebbe stappata un mese prima di berla!
Chissà quante storie e quali emozioni hanno da scambiarsi la giovane birra e l’anziano legno…

Bene, abbiamo appena terminato le riprese ed è già tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Salgo in macchina e guido verso Parma pensando alle birre del Maestro e alle loro storie. A poco a poco i pensieri prendono forma, accompagnati dal piano di Brad Mehldau che suona My favorite thing. Li appunto nella mente, poi in albergo li scrivo di getto.

Ecco, sembrano un racconto. Dedicato a Giovanni, a Manuel e alle loro birre.

La stagione della pesca stava per cominciare e la locanda era piena di fumo e di marinai. Il ragazzo raggiunse il tavolo dell’armatore; davanti a lui, una ciotola di zuppa.
«So che cercate uno strumentista di bordo», disse.

L’armatore alzò gli occhi sul giovane. Poi li riabbassò e iniziò a mangiare.
«Tu non sei uno strumentista».

«Di preciso no», ammise il ragazzo. «Non suono alcuno strumento, se è questo che intendete. Però canto, e molto bene anche. Con la voce, posso fare qualsiasi strumento».

L’armatore sorrise. A lui serviva gente esperta, capace di leggere sul quadrante dello scandaglio i movimenti segreti del pesce. E tuttavia quel ragazzo gli era simpatico.

Si guardò intorno alla ricerca di un’idea, e quando vide l’oste che versava della birra spillandola da una botticella metallica sospesa sopra il bancone disse: «Cantami la birra».

Il ragazzo prese tempo e seguì il movimento del liquido che scorreva lungo il vetro inclinato del boccale. S’infilò in quella materia fluida, orlata di schiuma e pervasa di bollicine. S’immaginò la vita prima dell’inizio, quando la birra riposa al buio e i colori ancora non esistono.

Iniziò con una nota lunga, bassa e sofferta. Affiorava dal suo corpo e una volta nell’aria vibrava aggrappandosi alle pareti della locanda.
L’armatore appoggiò il cucchiaio sul bordo del piatto.

Il ragazzo socchiuse gli occhi e inclinò la testa. Dalle sue labbra usciva sempre la stessa nota, ma di una tonalità leggermente più alta. Una nota sola, niente di più, ma era già il primo movimento di una sinfonia.
Un rapido fraseggio s’appoggiò a quella base e salutò la gioia della nascita. La birra usciva dalla botte e incontrava la luce, i colori, si tingeva di giallo e se ne meravigliava producendo una cascata di note cristalline che si ammassavano le une accanto alle altre.

Non era un virtuosismo fine a se stesso. Il ragazzo non cantava più per essere assunto, non cercava di stupire nessuno. Ancora una volta era diventato musica. Non la suonava, ma la portava dentro di sé.

Poi vide la mano dell’oste che reggeva il boccale e lo offriva a un marinaio. Era giunto il momento dell’ordine, la maturità delle cose. Le note divennero più severe, il ritmo cadenzato. Con un angolo del corpo, il ragazzo produsse una coppia di archi e picchiando con forza le mani contro il petto anche dei timpani.

Lunghe sorsate. Il marinaio si asciugò con cura le labbra con il bavero della giacca.

Alla fine, sulla parete verticale del boccale rimanevano solo tracce di schiuma che scivolavano sul fondo. Il ragazzo si avviò a concludere con un’altra nota lunga. Con la coda dell’occhio si accorse però che intorno a lui altra birra veniva versata.

Allora ebbe un sussulto e da qualche parte, tra il palato e la lingua, scovò un flauto. Vi soffiò delicatamente e chiuse con un ricciolo di speranza. Una delicata linea di note che saliva verso l’alto e spariva alla vista e all’udito, lasciando di sé un piacevole ricordo, un’emozione lieve.

L’armatore si asciugò le labbra. Non aveva bevuto, eppure qualcosa gli era scivolato fino in fondo al corpo, pizzicandogli le corde dell’anima.

«La paga non è alta e la vita a bordo è dura», disse infine, «ma se ancora lo vuoi, quel posto di strumentista è tuo».

Bene, adesso è proprio tempo di andare. Venite a Roncole di Busseto e lasciatevi pizzicare le corde dell’anima dalle birre di Giovanni e Manuel; ma non venite come turisti, mi raccomando, come ospiti!

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Il richiamo del vitello.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Rignano, il paesaggio quello del Gargano.
Abbiamo appena trascorso una notte quieta a San Giovanni Rotondo, sotto lo sguardo benevolo di Padre Pio. Saliamo in macchina e percorriamo la strada in discesa verso Rignano parlando del santo e dell’industria diffusa che si è sviluppata nel suo nome.

Naturalmente sbagliamo strada e scendiamo sul Tavoliere. Poi svoltiamo e chiediamo indicazioni a un gruppo di contadini rumeni; infine proseguiamo sulla linea di confine tra la pianura e la montagna.

La nostra auto è un puntino rosso che scorre sul quadrante del navigatore e disegna una traiettoria che sembra immaginaria. Non capita spesso d’incontrare una montagna appoggiata direttamente sulla pianura. Il Gargano è così: un grande masso precipitato dal cielo su una piana infinita.

Dovremmo cominciare a salire per raggiungere Giuseppe, il protagonista della puntata, ma non troviamo il punto esatto. Allora andiamo avanti e indietro lungo la provinciale, con la parete di roccia verticale da un lato e l’orizzonte dei campi dall’altro. Ci sarebbe da perdere la pazienza, ma noi restiamo calmi, tenacemente concentrati nella ricerca del tabaccaio.

«Andate avanti ancora un po’» ci aveva detto al telefono Giuseppe. «A un certo punto incontrerete un gruppo di case; vedrete il Consorzio Agrario e un tabaccaio. Allora girate a sinistra e cominciate a salire. A metà di uno dei tornanti vedrete un tratturo che porta alla masseria».
Massimo accelera. Forse il richiamo del tabaccaio.

Quando finalmente mettiamo la freccia e cominciamo a salire realizziamo che si è fatto tardi. Le capre devono uscire per andare al pascolo e il casaro deve lavorare il formaggio.

Massimo accelera ancora, mentre entriamo in un altro mondo, insospettabile dal basso: il regno di Giuseppe, delle sue vacche podoliche, delle sue capre garganiche e dei suoi ulivi. Tra le rocce aspre si apre una distesa lieve punteggiata di ulivi. I tronchi, grossi e nodosi, sono tutti marchiati. Sono ulivi secolari, registrati come opere d’arte firmate dalla natura. Da proteggere e tutelare. Saranno centinaia…

«Quasi cinquecento», mi confessa con orgoglio Giuseppe, mentre ci stringiamo la mano davanti alla sua masseria. L’edificio risale alla fine del Settecento ed è un modello perfettamente conservato di cultura contadina, con gli spazi di vita e di lavoro ben organizzati attorno a una grande corte centrale. Sulla facciata noto una strana torre a tronco di piramide che sovrasta un’ampia stanza.

«Cos’è?» domando incuriosito.
«Si chiama ‘papaglione’. È la volta della stanza dove la famiglia si riuniva la sera e dove si svolgevano molte delle attività di casa; al centro si accendeva il fuoco e il papaglione faceva da canna fumaria».

Tra poco Davide camminerà tra questi ulivi e metterà la sua sedia al centro del pascolo. Troverà un luogo di convergenze energetiche, dove i raggi del sole incroceranno i rami degli alberi e le corna degli animali.

Dirà che «questo è un territorio montuoso di origine carsica, coperto di ulivi secolari e prati dove pascolano mandrie di vacche podoliche e capre garganiche…».
Uno spettacolo da non perdere. L’idea stessa di armonia; una visione di bellezza quasi selvaggia dove ogni cosa assume una forma ideale e occupa un posto preciso.

Ma non c’è tempo da perdere. Al pascolo andremo dopo, adesso ci aspetta il casaro. Il latte è stato munto all’alba e deve essere lavorato prima che sia troppo tardi. Il caciocavallo è un formaggio a pasta filata che si maneggia come la creta e non deve essere né troppo molle né troppo duro. Il fuoco di legna arde nel camino dove un paiolo di rame resta sospeso sulla fiamma grazie a un antico sostegno in ferro battuto. Il casaro modella la forma con gesti lenti e misurati. È padrone del suo tempo.

Davide guarda il lavoro dell’uomo, un po’ artigiano e un po’ artista. Infine esclama: «Il caciocavallo di Giuseppe è prodotto in maniera rigorosamente tradizionale, con il latte scaldato al fuoco di legna d’ulivo e lavorato con strumenti artigianali. Ogni forma è un’opera d’arte, modellata dalla mano del casaro. Basta guardarla per sapere chi l’ha creata!»

Giuseppe non è nato contadino e ha studiato all’università. Pensava di dedicarsi alla ricerca e all’insegnamento; invece è tornato alla masseria di famiglia per allevare le razze tipiche della sua terra.
Nel corso degli anni, la vacca podolica e la capra garganica si erano quasi estinte, uccise dalla casualità degli incroci o dal miraggio del guadagno.
La vacca podolica è infatti una razza molto rustica e di grande qualità, ma poco redditizia.

Delle due mungiture quotidiane, una è riservata al vitello mentre l’altra avviene solo in sua presenza.
Proprio così: niente cucciolo, niente latte! E allora, ogni giorno, è tutto un concerto di affettuosi richiami all’interno della mandria, con i vitellini che corrono in cerca della propria madre. Mi racconta Giuseppe che solo il casaro può mungere le mucche, e quando per disgrazia uno dei piccoli muore oppure è malato, è sempre lui che si avvicina alla madre simulando i versi del figlio, magari indossando una pelle di vitello per recitare meglio la parte.

Difficile pensare ad una produzione intensiva in queste condizioni. Il rispetto della natura, dei suoi tempi e delle sue regole sembra spesso una scelta anacronistica, e invece è l’unica che dovrebbe essere considerata possibile.
Giuseppe lo insegna. In questo, è diventato un bravo docente.

Nella sala da pranzo della masseria, ricavata nei locali dell’antico frantoio, abbiamo allestito un tavolo con una selezione di formaggi. Lo portiamo nella corte, dove la luce del tramonto è in magico equilibrio tra il giorno e la notte.

Davide assaggia il cacioricotta, un’altra delizia di questa terra che si produce con il latte di capra garganica. Formaggio e ricotta insieme, da gustare fresco oppure stagionato. Davide si tuffa nel vortice dei sapori, un esercizio fisico e mentale che gli riesce benissimo. Quando riemerge esclama: «Piccole forme che sembrano sculture di neve…».

Allora, quando venite nel Gargano ricordatevi di abbracciare i tronchi di questi ulivi; hanno secoli di storie da raccontare a chiunque abbia tempo e voglia di ascoltare. Ricordatevi anche di accarezzare le corna delle vacche podoliche e delle capre garganiche; sono le regine di questi pascoli, sospesi su grotte preistoriche e sentieri nascosti che vi porteranno vicino al centro della terra, per poi condurvi a riveder le stelle.

Nel pomeriggio, guidato dagli amici del gruppo speleologico, mi sono avventurato in una di queste cavità. Giù in fondo, tra colate di stalattiti ed erezioni di stalagmiti, c’erano anche i pipistrelli. Erano puntini neri appesi al soffitto.
«Non facciamo troppa luce», aveva detto una delle guide. «E parliamo piano; se li svegliamo muoiono…».

Bene, adesso è tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Venite anche voi nel Gargano, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Pane quotidiano.

Oggi siamo in Puglia. Il paese è Orsara, il paesaggio quello della Daunia.
Arriviamo tardi, quando il sole è già tramontato. Angelo, il protagonista della puntata, mi dice al telefono di lasciare la macchina in piazza e di raggiungerlo a piedi, tanto Orsara è piccola e tutto è vicino al suo forno.

Entriamo nel borgo e imbocchiamo una ripida strada lastricata in discesa. Naturalmente non troviamo la piazza e continuiamo a scendere finché usciamo dal centro abitato e ci ritroviamo in aperta campagna, persi nella notte.
Massimo ha un guizzo d’ingegno e imbocca una strada in salita. Procede d’istinto. Continua ad avanzare seguendo il fiuto del viaggiatore. Attraversa un bosco e riemerge in cima alla collina, all’inizio del paese.

Partiamo così per un secondo giro, ripercorrendo la strada in discesa alla ricerca della piazza e del forno di Angelo. Questa volta procediamo con cautela e parcheggiamo davanti ai gradini di una chiesa. Non è la piazza, ma va bene lo stesso. Tanto Orsara è piccola e tutto è vicino al forno di Angelo…

Lui ci viene incontro. Ci abbracciamo. È la prima volta che ci vediamo di persona, ma è come se ci conoscessimo da sempre. Gli dico che dobbiamo andare subito a prendere le chiavi della stanza che ho prenotato. Gli mostro l’indirizzo. Pensavo che fosse in un quartiere di Orsara e invece scopro che è a Bovino, uno dei borghi più antichi e belli d’Italia, a circa mezz’ora di strada!
Non trovo le parole per dirlo a Massimo, che ha già guidato per più di mille chilometri nelle ultime ventiquattr’ore.
«Se vuoi, guido io…», dico a mezza voce. Massimo tace.

Promettiamo ad Angelo che saremo di ritorno a Orsara per l’ora di cena.
Il nostro regista continua a tacere paziente. Io dico: «Vedrai, domani faremo delle ottime riprese a Bovino. Sai, è uno dei borghi più antichi e belli d’Italia…».

Attraversiamo un altro bosco, saliamo e scendiamo due colli, superiamo un fiume. Infine arriviamo a Bovino, prendiamo le chiavi e torniamo a Orsara senza aver capito se sia davvero uno dei borghi più antichi e belli d’Italia.

Angelo ci aspetta con Davide e Peppe, l’amico chef che cucina con i fiori dell’orto e ripropone con estrema sensibilità le ricette della tradizione pugliese. Un uomo intelligente, pieno di energie. Spesso va in televisione. Un vero master chef

A tavola, Peppe mi tiene una piccola lezione sul grano arso, che in questi tempi di crisi mista a benessere sta diventando una forma d’espressione dell’alta cucina, ma che fino a pochi anni fa era il piatto di quei poveri talmente poveri da non riuscire nemmeno a mendicare.
Torna alla mente il Libro di Rut, dove si narra della giovane moabita che si procurava da mangiare spigolando nel campo d’orzo durante la mietitura.

Ecco, i poveri che in Puglia mangiavano la pasta di grano arso, non facevano nemmeno questo; aspettavano che le stoppie venissero bruciate prima della nuova semina. E nella cenere, trovavano il loro cibo.
Una lezione di vita, oltre che di cucina e di cultura materiale.

Angelo ascolta. Conosce bene il grano arso e i poteri del fuoco. Lui è il fornaio di Orsara; non un panettiere, attenzione, il fornaio!
Un tempo era il fornaio che all’alba andava di casa in casa, svegliava le donne e diceva di cominciare a impastare.

Poi accendeva il fuoco, e quando il forno era caldo, le mogli e le madri del paese si presentavano con le loro pagnotte da due, tre, anche cinque chili. Ognuna aveva una forma caratteristica; il fornaio le cuoceva e nell’attesa la sua bottega diventava un luogo di ritrovo, uno spazio vivo dove tutti avevano piacere di stare, soprattutto in inverno, quando fuori c’erano freddo e neve.
Tutto questo rivive ancora oggi a Orsara di Puglia grazie ad Angelo e al suo meraviglioso forno a paglia del 1526.

Durante la cena pianifichiamo le riprese dell’indomani. Angelo ha già pensato a tutto. Faremo anche noi il pane, ma al contrario, partendo da una pagnotta appena sfornata e concludendo con l’accensione del fuoco.
Una finzione scenica, ma anche una scelta obbligata: maneggiare un forno come quello di Angelo, capace di cuocere oltre un quintale di pane alla volta, non è una cosa semplice.

Il forno è diviso su due livelli: quello superiore è riservato al pane, quello inferiore al fuoco. Fuoco di paglia, naturalmente; per motivi economici, ma anche per esigenze di cottura.
Angelo mi spiega che nella Daunia – una specie di giardino montuoso dove è tornato a vivere il lupo e gli animali pascolano liberi – di paglia ce n’è sempre stata in abbondanza. Il fornaio usa solo quella di seconda scelta, perché la migliore è riservata al bestiame.
Anche questa è una lezione di vita e di cultura materiale da tenere a mente.

La fiamma della paglia è violenta e caldissima. Sale nel forno attraverso una bocca che si chiama Inferno. Dura poco e bisogna alimentarla continuamente con altra paglia, finché il forno raggiunge la temperatura desiderata. La stanza si riempie di fumo. Ecco perché un fornaio come Angelo non è bianco di farina, ma nero di fuliggine…
Poi la fiamma si consuma, poco prima di infornare. Così il pane cuoce a lungo e lentamente, quasi a vapore.

«Ma prima di infornare, bisogna impastare!» dirà domani Davide alla macchina da presa. Massimo userà la telecamera a mano, pronto a cogliere quegli attimi fuggenti che in televisione non si vedono quasi più.

Angelo usa un lievito madre che ha quasi un secolo di vita. Anche l’impasto è vivo, diverso ogni giorno a seconda dell’umidità, della temperatura e dell’umore.
Il fornaio deve sapersi adattare, senza avere mai fretta.

«Pensate che Angelo impiega oltre dieci ore per fare il suo pane!» spiegherà infine Davide, prendendo dal ripiano di legno una grossa pagnotta bruna e tagliandola con il coltello alla maniera classica dei contadini, con la mezza forma sul petto e la lama che corre dal bordo verso il cuore.

«Guardate che meraviglia!» dirà. «All’esterno c’è una sottile crosta croccante; all’interno invece la mollica è soffice e rimane fragrante per settimane!»
Poi si toglierà gli occhiali, guarderà dritto nell’obbiettivo della telecamera e lascerà che le palpebre gli cadano ai lati degli occhi, come le pieghe di un sorriso. Quando fa così, significa che sta per dire qualcosa d’importante, in cui crede veramente: «Questo pane è un alimento sacro: ricco di proteine oltre che di carboidrati. Ha tenuto in vita intere generazioni, anche quando sulla tavola non c’era altro da mangiare…».

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Quando venite a Orsara di Puglia e vi perdete nel bosco in una notte di luna piena, fermate la macchina e ascoltate il silenzio; potreste sentire il richiamo del lupo.
Non dimenticate di visitare antichi centri come Troia e Lucera, oppure Bovino, uno dei borghi più antichi e belli d’Italia, dove secoli di storia sono rimasti intatti, freschi e fragranti come il pane di Angelo!
Venite in Puglia, sui monti della Daunia, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

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Di qua e di là del Tavoliere.

Un paio di settimane fa siamo andati in Puglia per girare due nuove puntate di “Paesi, paesaggi”.

La prima a Rignano Garganico, un balcone carsico affacciato sul Tavoliere.
Tra le rocce aspre, una distesa lieve di ulivi secolari. Poi la masseria di Giuseppe, con il papaglione che svetta come un campanile e tutt’intorno mandrie di vacche podoliche e capre garganiche.

Uno spettacolo da non perdere. Una visione di bellezza quasi selvaggia, dove ogni cosa assume una forma ideale e occupa un posto preciso.
E alla fine, forme di caciocavallo modellate dalla mano del casaro e cacioricotta come piccole sculture di neve.

Vacche podoliche e ulivi secolari.

Il Tavoliere visto dal Gargano.

Caciocavallo d’autore e cacioricotta come piccole sculture di neve.

 

Seconda puntata a Orsara di Puglia, nel forno a paglia di Angelo del 1526.
Paglia di seconda scelta, naturalmente, perché la migliore è riservata agli animali.

Un fuoco violento, che sale da una bocca che si chiama Inferno; poi una cottura lenta, a vapore, in una stanza piena di fumo.
Per questo un fornaio come Angelo non è bianco di farina ma nero di fuliggine!

L’impasto è vivo: solo farina, acqua e lievito madre di quasi cent’anni.
Un pane sacro, che ha tenuto in vita intere generazioni, anche quando sulla tavola non c’era altro da mangiare.

Angelo, Stefano e il forno a paglia.

L’Inferno.

Davide e i profumi del lievito madre.

Angelo al taglio: la mezza forma sul petto e la lama che corre dal bordo al cuore.

***

 


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