Archive for febbraio, 2013

“Il sarto di Picasso”: spettacolo!

Ho sempre pensato che “Il sarto di Picasso” avrebbe meritato una versione teatrale. Ho anche provato a scriverla, ma non sono riuscito a trovare una chiave che mi permettesse di rappresentare il libro senza stravolgerne la storia.

Allora, più per necessità che per virtù, ho elaborato una specie di recital dove l’autore narra la vicenda e si interrompe ogni tanto per lasciar parlare il libro. Poi la musica, che accompagna le parole e si ritaglia alcuni spazi di scena aperta, arricchendo con i colori delle note il suono delle voci.

L’ho scritto e l’abbiamo messo in scena per la prima volta a Venezia, lunedì 11 febbraio 2013. Lunedì grasso, la giornata peggiore di quest’inverno, con neve, pioggia, vento, freddo gelido e acqua alta come non si vedeva da tempo.

Ma noi non ce ne siamo accorti, al caldo del refettorio di San Salvador. Ci siamo lasciati accarezzare dal tepore della Costa Azzurra, dove abbiamo accompagnato anche gli eroici rappresentanti del pubblico. Sì, perché esistono individui che anche in quelle condizioni escono di casa e vanno a teatro. Io non l’avrei fatto, e per questo li ringrazio.

Credo che molti di loro – come me, del resto – oltre che essersi interessati alla storia di Michele Sapone e dei suoi amici artisti, siano rimasti stupefatti dalle possibilità espressive del flauto. In scena, Federica Lotti ha soffiato dentro il suo strumento tirandone fuori suoni inattesi, che passavano dal registro lieve, sospeso, a quello grave, quasi brutale, con esattezza matematica e rapidità fisica (come un pugile che ti saltella intorno e ti colpisce al volto mentre tu stai ancora domandandoti se uscendo hai chiuso la porta di casa).

Picasso avrebbe gradito quelle note. Ci avrebbe cavato qualcosa di suo, magari un’altra “Colomba” di latta piegata, tagliata e dipinta.

Grazie a Stefano che ha reso possibile questo debutto, a Michela per la sua voce, a Federica per il suo flauto (e la sua voce).

E grazie anche a Venezia. Il fatto che esista un posto come Venezia non può essere dato per scontato. Ma come facciamo a dare sempre tutto per scontato?

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“Diario d’inverno”

Mentre andavo a Venezia per presentare “Il sarto di Picasso” in forma di spettacolo, ho letto “Diario d’inverno” di Paul Auster, uno dei miei autori preferiti.

E’ una sorta di autobiografia, e io adoro le biografie. Si tratta di un genere che frequento spesso, sia da lettore sia da scrittore. In genere amo i libri che mi permettono di entrare nella testa della gente. Un paio di settimane fa – ad esempio – ho letto “Open”, e con piena soddisfazione sono entrato nella testa di Agassi. Da scrittore cerco di fare la stessa cosa in senso inverso: offrire al lettore i pensieri nascosti dei personaggi. In qualche misura, tutte le cose che scrivo sono biografie.

Di Paul Auster posso dire che la sua narrativa mi ha sempre regalato qualcosa di cui ho fatto tesoro. Sembra scrivere come un buon insegnante di liceo che non sbaglia mai un congiuntivo e non cerca mai di sbagliarne uno apposta, tanto per vedere l’effetto che fa e sperimentare l’azione di una nota dissonante sull’andamento della composizione. Però le sue storie sanno prenderti a sberle. Mollano ceffoni le unicità dei suoi personaggi, l’asciuttezza logica e grammaticale di certe sue frasi che racchiudono senza sforzo abissi umani. In questo è un maestro.

C’è forse qualcosa di vagamente perverso nello scrivere pubblicamente di se stessi. Forse. Devo dire che nel caso di “Diario d’inverno” la cosa non mi ha dato alcun fastidio, tanto è distante il tono di voce di Auster da quello dell’autocelebrazione. Seguendo le sue riflessioni nel tempo e nello spazio si fatica quasi a capire che il suo mestiere sia scrivere: pochi accenni sempre di taglio, quasi per inciso.

Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto incontrare Auster a cena e parlare con lui del più e del meno. Prima di leggere “Diario d’inverno” l’avrei portato sul terreno della scrittura; adesso resterei nel campo aperto della vita, di cui la scrittura fa parte, ma di taglio, quasi per inciso. Cercherei magari di parlargli dei nostri corpi, e del Dio che forse li abita.

Altre due riflessioni in ordine sparso. Sono sicuro che Paul Auster adora le liste. Di solito i lettori le saltano, io invece mi ci immergo. Mi perdo nella metrica esatta di una lista ben scritta. Sono sicuro che Auster quando ne incontra una, si alza in piedi e la legge a voce alta, magari camminando, per sincronizzare meglio il battito dell’elenco con il suo respiro. Gli eroi dell’Iliade, le stirpi dei Numeri…

La seconda è che pensavo a Paul Auster come a un uomo di successo, intelligente e pieno di attività intellettuali e sociali. Adesso che ho letto dei suoi mille inciampi, lo vedo come un personaggio di Carver, e di questo gli sono grato.

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Vedi alla voce: amore.

Ho appena finito di leggere “Vedi alla voce: amore” di Grossman, un autore che stimo molto.
Un testo sempre in equilibrio tra stili e punti di vista differenti; una trama esile calata in una struttura narrativa complessa.
Un grande libro. Ma difficile da seguire.
Occorrono – secondo me – almeno due cose: tempo e capacità di abbandono.
Non si può leggere questo Grossman una paginetta al giorno, la sera prima di addormentarsi; e non si può comprendere questo Grossman se non ci si abbandona alla sua narrazione.
Se cerchiamo noi – lettori – di guidare la vicenda, ci perdiamo; se lasciamo che sia lui – scrittore – a prenderci per mano, ci ritroviamo.
E’ utile anche avere una certa familiarità con le Scritture, per godere dei continui rimandi alla tradizione che altrimenti si perderebbero nelle pieghe del testo.
Wasserman implora spesso Neigel di ucciderlo. Anche Grossman sembra implorare il lettore di chiudere il libro.
Ma non si può: come Neigel non può sottrarsi allo sviluppo incerto e spesso deludente della storia di Wasserman, così il lettore non può chiudere il testo in faccia a Grossman.
Mi piace pensare che non sia stato un caso che quest’anno, nel giorno della memoria, avessi per le mani “Vedi alla voce: amore” e ne stessi leggendo l’ultima pagina.


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