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Lo zafferano del lago.

Oggi andiamo in Lombardia. Il paese è Pozzolengo, il paesaggio quello del Basso Garda.
La sveglia suona presto, quando il gallo del vicino dorme ancora. Dalla finestra della cucina guardo il porto di Genova. Bevo il caffè nella mia tazzina preferita, quella di vetro senza manico, mentre la Lanterna mi abbaglia a intervalli regolari. La giornata inizia bene, anche se le previsioni del tempo sono pessime.

In effetti, a mano a mano che salgo verso Nord il cielo si copre di nuvole bianche alternate a chiazze d’azzurro sempre più rade. Si procede nell’incertezza fino al casello di Desenzano, poi imbocco la statale e mi dirigo verso Pozzolengo, dove mi aspetta lo zafferano purissimo di Mauro. Al freddo della Lombardia che confina con il Veneto, sulle rive umide del Lago di Garda, Mauro produce uno zafferano tra i migliori d’Italia, cioè del mondo.

Miracoli del microclima italiano, dove ogni dieci chilometri cambia tutto: il territorio, il clima, la cultura, la lingua, la testa della gente.
Lo zafferano è un prodotto antico e prezioso. Lo stesso Mauro, mi ricorda che il Crocus Sativus era coltivato già nel Terzo Millennio prima di Cristo tra il Tigri e l’Eufrate, nella culla della civiltà Accadica. Anche il Cantico dei Cantici e l’Iliadecitano lo zafferano come pianta aromatica, ma se ne trova traccia persino a Creta, nelle pitture del palazzo di Cnosso, così come in molti papiri egizi.

La storia dello zafferano in Italia è avvolta nel mistero come quella del caffè. Pare che sia stato un monaco abruzzese dell’Inquisizione a trafugare la nobile pianta dalla Spagna del Trecento.

La sorella di Mauro si chiama Valeria, ed è un’archeologa. Lavora anche lei in campagna, ma continua a studiare il passato delle cose. La loro casa di Pozzolengo è piena di vasi, piatti e attrezzi agricoli dell’antichità, che riprende dagli scavi e riproduce fedelmente.

Mauro invece è un meccanico, esperto in macchine industriali. Anche lui un agricoltore di seconda generazione, nato in campagna e tornato alla terra per scelta e per passione.

La vocazione agricola del territorio del Basso Garda risale anch’essa all’antichità. Milioni di anni fa, al posto del lago c’era un immenso ghiacciaio, che sciogliendosi aveva portato a valle i detriti che formano oggi le coline moreniche tra Verona, Mantova e Brescia.
Un vero anfiteatro con lievi ondulazioni del terreno che sembrano abbracciare la parte meridionale del lago. L’abbondanza d’acqua e il clima mite, quasi mediterraneo, hanno fatto di questa terra una specie di mondo a parte, abitato e coltivato fin dalla preistoria.

L’avventura agricola di Mauro era cominciata molto prima dello zafferano, con la vite, l’ulivo, le piante da frutta e gli ortaggi che il padre coltivava in maniera già biologica, quando il rispetto per la terra sembrava una follia priva di senso.

Le pesche e i kiwi maturavano benissimo, ma erano facile preda degli insetti delle colline moreniche. Mauro aveva allora iniziato la ricerca attenta di una nuova pianta da coltivare nel suo terreno; qualcosa che vivesse più sottoterra che alla luce del sole. Scoprì lo zafferano.

Studiò Storia con la sorella e Agraria con il padre, poi si trasferì a San Gimignano e nella Piana di Novelli, dove si produceva lo zafferano migliore.
Imparò le tecniche, sviluppò nuove idee e nel 2001 comprò i suoi primi quaranta bulbi.

Alle nove in punto entro nel cortile della sua casa e attraverso filari di kiwi pronti per essere raccolti. Insieme andiamo al campo di zafferano e intanto parliamo della sua attività. Mi spiega che lo zafferano è una pianta sterile e che non perdere i bulbi costituisce una parte fondamentale del suo lavoro. Il terreno dove stiamo andando adesso è stato scelto non solo per le qualità organiche, ma anche per l’esposizione alla luce e per la naturale pendenza, che permette la realizzazione di efficaci canalizzazioni di drenaggio dell’acqua.

Quando arriviamo al campo, mi aspetto di vedere una distesa di fiori viola. Invece il terreno sembra solo perfettamente arato. Non dico niente e guardo con attenzione il punto dove abbiamo deciso di posizionare Davide con la sua sedia. I fiori ci sono, ma sono piccole pennellate sottili che si perdono nella massa scura del terreno.

All’improvviso Massimo diventa frenetico: vuole iniziare subito le riprese perché la luce è bellissima! Tra poco verrà giù il finimondo e sarà tutto buio. Davide si siede e racconta degli straordinari risultati di Mauro con quei primi quaranta bulbi.
Guarda verso la macchina da presa e spiega che «i valori della picrocrocina – cioè il potere amaricante dello zafferano – e della crocina – cioè il potere colorante -, sono stati subito altissimi…».

Mauro mi dice a bassa voce che il suo zafferano raggiunge valori anche del 90% superiori a quelli richiesti dalle norme di legge per essere considerati di prima categoria.

Davide prosegue svelando il segreto di questo successo: «Il terreno, naturalmente, ma anche una coltivazione biologica e manuale. Alla fine di ottobre, i fiori vengono raccolti al mattino prima che il sole li schiuda e inizi l’ossidazione».

Oggi non c’è sole e sta iniziando a piovere. Prima piano, poi sempre più forte, fin quasi a diluviare. Ci rifugiamo in casa, mentre il padre di Mauro rimane nel campo. I fiori che si sono schiusi devono essere raccolti.

Mentre il contadino si bagna, noi all’asciutto riprendiamo la famiglia che in camice bianco maneggia i fiori dello zafferano.
Il banco di metallo è coperto da una distesa di fiori viola. Sullo sfondo della stanza brilla il camino acceso, con le braci pronte per la tostatura.

Davide si siede accanto a loro e spiega: «Gli stimmi vengono staccati a uno a uno; si tiene solo la parte rossa che viene tostata su braci di legna nobile. Un lavoro minuzioso, quasi da orafi, utilizzando bilance di precisione. Pensate che un solo grammo di zafferano purissimo di Pozzolengo basta per un risotto alla milanese per 60 persone!»

Le parole di Davide sono come un richiamo irresistibile. La madre di Mauro aveva già messo sul fuoco il riso e adesso lo sta facendo mantecare con burro e Parmigiano. Lo zafferano di casa è già al lavoro tra i chicchi.

Divoriamo il risotto alla milanese, ormai diventato una specialità di Pozzolengo, e lo accompagniamo con la coppa e la pancetta del padre di Mauro, il suo vino e la sua frutta.
Fuori diluvia e il paesaggio è bellissimo proprio per questo. Usciamo per terminare le riprese, sulle rive del lago e nell’antico borgo medievale di Castellaro Lagusello.

Massimo e la sua telecamera scorgono angoli di delicata raffinatezza. Salici che sfiorano l’acqua sotto il peso della pioggia, scafi allungati di legno che accarezzano il pontile, il portale di una chiesa, un arco in pietra lavorata, un vecchio chiavistello in ferro battuto e il selciato bagnato che riflette la luce diffusa.

Infine, Pozzolengo. Scopriamo che anche attorno ai campi di zafferano sorgono antiche mura. Con sommesso orgoglio, Mauro ci parla del castello di Pozzolengo, del suo borgo e delle pietre dove si arrampicava da ragazzo.

La torre è una snella costruzione cilindrica con una serie di campane che sembrano intatte. Chiedo a Mauro se funzionino, se qualcuno le suoni, magari in occasione di qualche festa religiosa. Lui mi sorride e mi spiega che sono campane laiche.
«Suonano sempre», dice. «Tutti i venerdì, alle nove di sera, in paese si spegne la televisione e si ascoltano le campane!»

Bene, adesso è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Venite nel Basso Garda, ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!
E quando passate dalle parti di Pozzolengo, ricordatevi di ordinare un risotto alla milanese; non ve ne pentirete.

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Il principe ben stagionato.

Oggi siamo in Piemonte; il paese è Castelmagno, il paesaggio quello della Val Grana.
Mi sveglio all’alba e guardo la calma del mare. La giornata si annuncia buona, nonostante le previsioni. La luce mi accompagna serena fino a Savona, poi diventa un’ombra larga e inquieta.L’acqua scende torrenziale alle porte di Cuneo. Mette paura.
Per fortuna sono rimasto senza benzina e devo fermarmi. Mi rifugio nel bar del distributore. Quando risalgo in macchina, mezz’ora dopo, ha quasi smesso di piovere. Fuori è ancora buio, però si è alzato il vento. In genere, questo è un buon segno.

Appena imbocco la provinciale per la Val Grana mi chiama Davide. Anche questo, in genere, è un buon segno. Dice che il tempo su è bellissimo. Bisogna crederci. Così, quando sbuco dalle nuvole la mente è già sui pascoli in quota, sopra le case in pietra di Chiappi, raggruppate con ordine sotto il santuario di San Magno.

L’ultima curva è una fotografia da scattare con gli occhi,per fissare nella mente le luci e le ombre che danno vita ai territori. Oltre il santuario, la montagna sale ripida ma accessibile. Un pendio che è anche una via di comunicazione: la rotta di mercanti, pellegrini e popoli interi che per secoli hanno camminato su queste pietre verso la Francia e il mondo.

Cuneo dista una ventina di chilometri. In basso la pianura alluvionale, quella che oggi era fradicia di pioggia; poi gole strette e profonde che s’intuivano appena, oscurate dalle nubi; infine praterie d’erba, rocce e fiori d’alta quota. Un vero giardino botanico, con orchidee, anemoni, genziane, viole e gigli. Davide dirà alla macchina da presa che c’è anche l’Artemisia Mutellina, il fiore del genepì, e perfino il camedrio alpino, che a lui piace molto più della stella. Dirà anche che questa «è una valle che ti abbraccia, come una persona cara».

Quando avevo scritto queste parole non ero mai stato qui. Ero pronto a cambiarle e invece scopro che sono perfette. Così, mentre Massimo prepara la telecamera per una nuova inquadratura, resto a godermi l’abbraccio della valle. Un istante che vale una giornata.

Troviamo subito il punto dove mettere la sedia di Davide. Il centro energetico della Val Grana, appena sopra il santuario di San Magno, è sulla cima di una collinetta sovrastata dal passo della Crosetta. C’è un palo di legno alto e stretto conficcato nel terreno e sormontato da rami più piccoli che guardano in tutte le direzioni. Indicano strade e sentieri. Una specie di navigatore satellitare d’altri tempi. Sembra lo scheletro di un albero, oppure un totem; un oggetto sacro.

Davide arriva con il passo deciso del camminatore. Si ferma di fronte al palo e con un movimento unico, come se si togliesse un mantello, posa la sedia. «Da qui – dice – è più facile capire il territorio e la sua gente».
Siamo venuti nelle terre di Castelmagno per raccontare una storia di montagna, di latte e di formaggio. La storia di una piccola comunità capace di produrre un formaggio eccezionale, già un migliaio di anni fa. Davide sorride alla telecamera e dice: «Pensate che già nel 1200, gli abitanti della valle pagavano le tasse al marchese di Saluzzo con sette forme di Castelmagno d’alpeggio all’anno!».

Chiappi è una frazione di Castelmagno: case sparse, con una manciata di abitanti. Le abitazioni a ridosso del santuario sembrano gocce di pietra nel mare dei prati. Poca gente, ma con un grande sapere. Nel corso dei secoli, il Castelmagno è diventato il «principe dei formaggi italiani» presso le corti reali e sulle tavole dei migliori ristoranti di Londra e Parigi. Poi, dopo la grande guerra, la grande fuga. Il sogno della modernità ha portato quei pochi lontano dal Castelmagno e il principe è decaduto.

Oggi il ritorno, graduale e selettivo, ma convinto. Grazie anche a Giorgio, il protagonista della nostra puntata, che insieme al sindaco De Matteis si era battuto per ottenere il riconoscimento di formaggio d’alpeggioDue parole che racchiudono un mondo. In alto l’alpeggio e l’erba dei pascoli, in basso – poco più in basso – la stalla e i mangimi. Due filosofie di vita diverse, come sorelle che generano figli differenti, ma con lo stesso nome.
Già scrivere questa differenza sull’etichetta è un atto di onestà verso i produttori e i consumatori. La valorizzazione dei territori passa anche attraverso piccoli atti di giustizia. La terra insegna a chiamare le cose con il loro nome.

Oggi Giorgio lavora con il figlio, un giovane che vive a Cuneo ma risale tutti i giorni la valle per occuparsi del formaggio e del genepì, la sua passione. A tavola, Davide suggerisce di accoppiare il Castelmagno proprio al genepì. Ha il palato fine e i sensi allenati. Sembra strano, ma il casaro non ci aveva mai pensato. Lo associava piuttosto al Barolo dei Ceretto, appassionati conoscitori di questo lembo di Piemonte. Davide invece è convinto che al Castelmagno serva un liquore dolce e aromatico come il genepì. Stessa aria, stessa terra.

Raggiungiamo il santuario. L’aspetto è imponente, quasi selvaggio. Una roccia tagliata a sbalzo tra le pareti della montagna. Un luogo mistico, ma in senso laico. Il santuario è circondato da ampi porticati. Ogni arcata è scandita da un anello sul muro.
Un tempo era un serraglio – mi confida Giorgio, intuendo i miei pensieri – e quegli anelli servivano per legare gli animali. Sotto il portico, il mercante si stendeva a dormire, poi di giorno vendeva la merce sul piazzale. Serviva la gente di passaggio».

Interrogo il parroco sull’anima laica dell’edificio. Dice che san Magno è il protettore del bestiame e dei pascoli, e che sul retro è ancora visibile un altare romano dedicato a Marte. Sempre sul retro c’è un cimitero. Piccolo, raccolto, dove la morte si manifesta come un sussurro. Ci sono le anime dei defunti mosse dal vento che danzano sulle loro tombe.
Sulle lapidi vedo dei buchi. Chiedo cosa siano e mi rispondono che un tempo le famiglie mettevano dei quarzi a decoro delle tombe. Poi qualcuno ha rubato le pietre e nessuno le ha più rimesse. Una cosa triste, ma l’atmosfera resta lieve. La pace dei morti resiste paziente alle offese dei vivi.

Dietro l’altare c’è la cappella antica, del Quattrocento. I dipinti sui muri sono un corso accelerato di catechismo. L’Ultima cena occupa tutta la parete. Al centro Gesù, con Paolo alla sinistra in atto di preghiera e Giovanni alla destra, addormentato sulla tavola con il Cristo che lo osserva paziente. L’unico personaggio di spalle è il traditore. I denari appesi alla cintura, la mano destra tesa verso il Messia che gli offre del pane. Giuda è l’unico che veste di scuro. Chi guardava il dipinto doveva imparare in fretta e non avere dubbi sul senso del racconto.La catechesi passava rapida attraverso i segni del pennello.

Infine, la firma dell’autore. Forse il tratto più singolare dell’affresco. E’ posta sul soffitto della stanza, in una striscia decorata che la percorre delimitando il dipinto. Nella fascia si susseguono tre facce e tre cerchi grigio scuro, quasi neri. «Chi sono quei volti? – chiedo al parroco – e cosa sono quei cerchi?».
«I volti non lo sappiamo – mi risponde – ma i cerchi sono quasi certamente dei bottoni neri: la firma dell’autore». Torno a guardare perplesso la parete. «Si chiamava Bottoneri! – esclama Giorgio – era un pittore importante e anche un frate francescano; uno di Cherasco».

L’affresco merita un viaggio. È pieno di elementi simbolici da interpretare e segni pittorici da apprezzare. Un oggetto che parla, come un frate che dice Messa con le immagini. Da non perdere.

La giornata si conclude nella grotta di stagionatura del Castelmagno, dove le forme arrivano bianche dalla casera e a poco a poco diventano scure macchiandosi di rosso. Non sempre e non tutte. Come capita. Anche questi sembrano dipinti, con piccoli tocchi di vermiglio su ampie campiture ramate.
Formaggio accarezzato dall’aria e cullato dalle mani dell’uomo, che tutti i giorni muove le forme e pulisce le croste. Allora, Se venite in Val Grana e vedete una mucca d’alpeggio, ringraziatela; in una settimana produce settanta litri di latte, quel che serve per fare una forma di Castelmagno.

Da vedere e da gustare c’è la pasta morbida del formaggio, che sotto la crosta diventa scura e a poco a poco si vena di muffe nobili: la famosa erborinatura, il sangue blu del Castelmagno Dop!

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Come dice Davide: «Venite a Castelmagno, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!»

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I vini sepolti.

Oggi siamo in Friuli Venezia Giulia; il paese è Duino Aurisina, il paesaggio quello del Carso.

L’auto di Davide fila veloce sull’autostrada più trafficata d’Italia, l’unica dove i Tir superano in terza corsia. Ansia è la parola giusta. Poi, a un tratto, il finestrino inquadra la duna di Soave. Allungo lo sguardo oltre il vetro che riflette i raggi del sole. Soave è la parola giusta.

Resto incantato, ogni volta che passo di qua. Arriviamo da Beniamino prima di pranzo. Ci accoglie nella sua osmiza, la tipica locanda domestica del Carso segnalata da una frasca. Secondo un calendario ufficiale, per un paio di settimane all’anno, le osmize sono aperte al pubblico e offrono piatti della tradizione come salumi, uova, verdure sott’olio e sottaceto, accompagnati dal vino di casa.
È un’usanza che risale all’Impero Austro-Ungarico, quando ai contadini era stato concesso il diritto di vendere i propri prodotti. Quella di Beniamino adesso è chiusa, ma per gli amici è sempre aperta, con lo spargher, il focolare, acceso al mattino presto e tenuto vivo durante il giorno.

Ci prepara del pesce alla griglia. Lo cucina in un modo che mi pare subito geniale, ponendo il cibo in verticale davanti al fuoco. Così il grasso cola lontano dalla fiamma e non accende le braci. Assaggiamo i suoi grissini fatti in casa, ci bagniamo le labbra con qualche goccia di Terrano e di Vitovska, poi un caffè e Davide sparisce per cambiarsi d’abito.

Si trasforma nel camminatore incallito di Paesi, paesaggi, quel misterioso naturalista di campagna sospeso nel tempo, senza mete da raggiungere; solo passi da compiere e storie da raccontare. Le vigne sono subito lì, affacciate sul mare. I filari sono protetti da massi bianchi di rocce calcaree e circondati da sentieri che si perdono nel fitto del bosco. Siamo nel Carso, nel Kras, come si dice qui, con i piedi appoggiati su una manciata di terra rossa che ricopre grotte e fiumi sotterranei.

In superficie, il Carso è un mondo di colori: le rocce calcaree sono di un bianco abbagliante mentre i boschi sono verde scuro. Sui prati più chiari sono distese migliaia di piante e fiori; spazi aperti e luminosi diventano all’improvviso angoli bui, quasi misteriosi. Il mormorio sommesso del Timavo, il grande fiume sotterraneo, ricorda la Terra prima di Adamo, all’epoca della creazione, quando non c’era nessuno per raccontarla.

Davide si ferma in mezzo al vigneto, posa la sedia e si mette comodo. Ha scelto un punto rialzato per osservare il territorio e capire la sua gente. Ha fatto come Goethe, quando viaggiava in Italia e si accaniva a risalire la creste dei monti o si arrampicava sui campanili per vedere le cose dall’alto.

Davide inforca gli occhiali e racconta la storia di Beniamino, «uno di qui, che alla fine degli anni Ottanta aveva preso in mano il vigneto del padre e si era dedicato a una produzione naturale e biologica, eliminando ogni traccia di chimica».

Beniamino produce la Vitovska, un bianco autoctono macerato sulle bucce con lieviti naturali, che affina in botti di rovere e imbottiglia senza filtrazione. Poi il Terrano, un rosso tipico del Carso, della famiglia del Refosco, un vino molto minerale proprio come la terra su cui cresce, la Terra Rossa, piena di ferro e calcare. Un tempo, veniva usato anche come medicinale proprio perché ricco di ferro. Due grandi vini, cui Beniamino aggiunge una Malvasia tutta speciale, nata in Grecia ma impiantata qui come una vera friulana.

I vigneti di Beniamino sono lavorati con cura maniacale. Noto che i filari sono di un’esatta irregolarità. Scanditi, quasi elencati da pali di legno tagliati in maniera uguale e disuguale al tempo stesso. Vedo le cose, ma non le capisco. Finché non me le spiegano. Beniamino, paziente, mi spiega che pali sono di acacia, l’albero tipico di questi boschi. Si prendono i tronchi più grossi, perché sono i più stagionati, e si spaccano in quattro con l’accetta. Ecco perché sono tutti uguali e disuguali al tempo stesso.

I tracciati dei filari sono progettati sulla carta, ma poi realizzati seguendo le curve della terra, accompagnando le sue incertezze.

«I filari vanno dritti – dice Beniamino – perché la mano dell’uomo è forte; ma con la natura bisogna sempre giungere a dei compromessi». Poi s’inginocchia, scava con le mani e trova subito la pietra. Ancora una volta, Beniamino mi sorprende. Dice che nel Carso le radici della vite possono allungarsi anche dodici metri, facendosi largo tra le rocce alla ricerca di acqua e nutrimento.

Mi guarda, sorride, e come se stesse parlando di una persona aggiunge: «La vite dà il meglio di sé quando soffre un po’…».

Dopo il campo, la cantina. La quiete dell’invecchiamento.

La storia di Beniamino, quella spettacolare, comincia proprio da qui: dall’invecchiamento. Massimo stringe l’inquadratura, Davide inforca gli occhiali, guarda fisso nella telecamera e dice: «Beniamino capisce che la qualità del suo vino non sta solo nel vigneto, ma nella cantina. Allora si guarda sotto i piedi e percepisce la trama di grotte sotterranee, il fiume sommerso di correnti d’aria che si sviluppano sotto la superficie».

Nel 2002 Beniamino inizia a scavare. Ogni pietra che toglie al terreno la rimette a dimora in superficie e continua a scavare fino al 2009. Sette anni, per scendere di venti metri e realizzare una cantina di cinque piani che sembra la scenografia di un film, con un sistema di passerelle sospese e filari di botti di rovere accostate alle pieghe della roccia.

Qui, i vini di Beniamino affinano come altrove sarebbe impossibile. Maturano sottoterra; letteralmente vivono sepolti, e quando tornano alla luce diventano alcuni tra i «migliori vini d’Italia».

Poche bottiglie all’anno. Ma almeno una va bevuta.

Davide dice che «è come andare in Paradiso, dopo essere stati vicino all’Inferno». Ma la cosa che mi colpisce di più della cantina di Beniamino è ancora una volta il terreno. Le botti – qui sotto – poggiano sulla Terra Rossa, come le viti in superficie.

Una finezza, perché il vino ricordi le sue origini.
Davide riempie il calice di Vitovska e lo avvicina alla parete della grotta. Hanno lo stesso colore, la stessa luce viva e brillante. Dice: «Vino su roccia, tono su tono», mentre io osservo la botte da cui Beniamino ha spillato il bianco.

Con il gesso c’è scritta una frase di Mario Soldati: «Il vino è la poesia della terra».

Progettando questa trasmissione, pensavamo proprio a Mario Soldati e al suo Viaggio in Italia. Televisione d’altri tempi, quando gli autori erano scrittori.

Bene, adesso è tempo di andare e tornare in superficie; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Se venite nel Carso, quando vedete una frasca fuori da una casa fermatevi ed entrate. È una osmiza, dove potrete gustare il cibo tradizionale dello spargher, il focolare. Ricordatevi di toccare la Terra Rossa che ricopre le rocce, e provate ad ascoltare il mormorio del Timavo, il fiume che non si vede con gli occhi ma si sente con il cuore.

Allora, come dice Davide: «Venite nel Carso, nel Kras, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti. Perché questa è anche casa vostra».

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I signori del Mediterraneo.

Oggi siamo in Sicilia. Il paese è Marsala, il paesaggio quello di Capo Boeo.
Siccome chi dorme non piglia pesci, avevo deciso di svegliarmi presto. Nella notte avevo raggiunto il porto di Orio al Serio ascoltando e riascoltando un cd di mia figlia. C’era un brano che mi restituiva il ricordo di Bob Dylan, quando avevo i suoi quattordici anni. Nastri consumati, rotti e rimessi insieme con lo scotch. Fantasie fragili, castelli d’aria costruiti sulle note di una ballata.

La barca su cui mi accingo a navigare si chiama FR9091, della flotta Ryanair. Molliamo gli ormeggi alle otto in punto e navighiamo sull’Italia mentre la luna scivola dall’altra parte del mondo. Quando sbarco a Trapani, è giorno fatto. Una corsa veloce a passo svelto lungo il litorale di Capo Boeo, tanto per salutare Favignana, Levanzo e Marettimo, poi vado in porto, quello vero.

Ho appuntamento con Marco, il protagonista della puntata.

I pescherecci sono tutti lì, in banchina. Messi all’inglese, con i parabordi uno a fianco dell’altro, che sembrano tenersi per mano e farsi compagnia. Escono poco e hanno molto da raccontarsi. Storie di pesca e di naufragi, vicende di pesci ed esseri umani nel turbine delle acque.

Marco è un uomo che chiunque abbia amato Il vecchio e il mare dovrebbe incontrare. Lui è Santiago. Le stesse rughe, lo stesso portamento lieve, la stessa pelle anziana cotta dal sale. E poi gli occhi vivi, che lasciano affiorare tutto ciò che hanno visto. Slanci nobili e infime bassezze del genere umano. L’occhio buono è sempre in movimento, l’altro è fisso verso l’alto, come se sbirciasse il cielo e ogni tanto chiedesse consiglio.

Le sue mani, segnate dai morsi della lenza, sono forti eppure gentili. Hanno tenuto tonni da centinaia chili e corpi alla deriva, uomini e donne ancora da salvare oppure cadaveri cui donare sepoltura. A un tratto, a tavola, accarezza la schiena della moglie. Si capisce quanto sia importante per lui. Come la terra ferma, quando tutto si muove intorno.

In banchina è il più anziano e il più minuto. Quasi fragile. Eppure è lui il capo. Lui è Santiago; gli altri, pur esperti e solidi, sono Manolin.
All’imbrunire, mentre Davide atterra e Massimo gironzola per il porto rubando immagini di copertura, io estraggo dallo zainetto la sceneggiatura.
Nessuno sa cosa abbia scritto.

Ma le aspettative sono tante, perché i pescatori di Marsala vedono la nostra trasmissione come una possibilità concreta per invertire la rotta del destino. Noi siamo arrivati sulla costa di Capo Boeo attratti dalla poetica del mare e dalla romantica perfezione della pesca al tonno con l’amo, inventata proprio qui a Marsala.

Abbiamo però scoperto che una serie di leggi ingiuste favoriscono le reti a circuizione, penalizzando la pesca con l’amo, l’unica veramente sostenibile e selettiva.
La mia sceneggiatura spiega tutto questo. È una scrittura precisa, ma incompleta; le parole scorrono rapide, ma restano ai margini del problema.

In banchina sono circondato dai pescatori. Leggo il testo ad alta voce.
Le parole dovrebbero essere armi; avere sempre la forza di chiamare le cose con il loro nome.
I tonnaroti ascoltano in silenzio, poi mi domandano qualcosa. Rileggo parte del testo mentre con gli occhi cerco quelli di Marco.
Con la bocca non dice niente, con gli occhi sì. Allora rimetto la sceneggiatura nello zainetto e dico: «Vado in albergo. Torno tra mezz’ora».

Quando mi ripresento in banchina, Davide è già salito a bordo. Carico di energia, come sempre. Anche Massimo è pronto a salpare. Ormai è notte. Lasciamo il porto con la sedia ancora appoggiata al bordo interno dello scafo, sotto le boe-radio del palangaro. Quando Davide la prende e se la mette in spalla, caracollando verso poppa, siamo già in mare aperto. La luna è alta, l’acqua increspata da uno scirocco fresco. Noi del Nord pensiamo sempre allo scirocco come a un vento caldo, ma qui, sulla costa meridionale della Sicilia, è quasi fresco.
Viene dall’Africa, ma si raffredda sul canale.

Davide spiega che «in Sicilia, c’erano ben 400 pescherecci che usavano il palangaro, ma oggi ne sono rimasti meno di 30, quasi tutti a Marsala!»
Poi aggiunge che «i pescatori come Marco sono destinati a sparire se non cambiano le leggi che favoriscono i sistemi industriali e uccidono la pesca con l’amo, che invece dovrebbe essere conosciuta e sostenuta».

Massimo intanto comincia a stare male. La barca fila veloce mentre i pescatori simulano le azioni di pesca davanti alla telecamera. Il movimento continuo delle onde, il panino appena mangiato, i continui cambi di messa a fuoco: tutto aiuta a rivoltare lo stomaco. Un minuto di riprese, un minuto fuori bordo. Il grande faro del pozzetto è impietoso. Sbiancherebbe chiunque. Massimo adesso è spettrale.

Davide invece è in piena forma e anch’io me la cavo bene. Saltelliamo baldanzosi di qua e di là, da un lato all’altro del peschereccio. Anche i pescatori, che il mal di mare non sanno cosa sia, ridono e scherzano vicino a Massimo che vorrebbe essere ovunque tranne che lì.

Poco prima che Davide reciti la nuova battuta, incrocio lo sguardo di Marco. La sua presenza è ferma e piena di dignità. Santiago non soffre il mare e non sente il bisogno di farlo sapere. Non deve dimostrare niente a nessuno.
Dice a voce bassa: «Mettiamoci al traverso e rallentiamo», accompagnando le parole con un movimento lento del braccio. La barca si calma.

Mi quieto anch’io e leggo a Davide le parole che ho riscritto in albergo. Lui annuisce convinto. Nel frattempo, Massimo torna dietro la telecamera. Sembra stare meglio anche lui. Avvia la registrazione e ascolta in cuffia Davide che dice: «Il mare ha da sempre nutrito i popoli. Oggi è ricchissimo di tonno, ma le quote per il palangaro sono così basse che i pescatori le superano in una sola calata! E poi devono restare in porto».

La notte del 20 maggio 2013, i pescherecci di Marsala erano usciti in mare e avevano tutti pescato molto più di quanto fosse consentito dalla legge per un anno intero! Ma i pescatori non potevano scendere in acqua e impedire ai tonni di abboccare ai loro ami. Così erano sbarcati con il pescato; avevano venduto la quota legale e pagato una multa su quella eccedente, sequestrata dalla Capitaneria.

Poi non erano più usciti. Adesso sperano che succeda qualcosa. Non nel mare, sempre più ricco di tonni, ma negli uffici dei politici, nelle stanze di chi fa le leggi, in Italia e in Europa.
Mentre rimetto a posto le mie cose e scatto qualche foto, vedo Marco e Davide che discutono appoggiati al bordo del peschereccio. Parlano del presente e del futuro, di ciò che potrebbe succedere, delle speranze di questa marineria che va sparendo.

L’indomani, mentre filmiamo le ultime scene in riva al mare, Marco mi racconta di quando pescava il corallo. Mi descrive in dettaglio l’attrezzo che usava e le manovre che doveva compiere. In mare ha pescato di tutto.
Un paio di giorni dopo ci salutiamo in aeroporto. Ci abbracciamo e scambiamo poche parole, giusto un gioco di sguardi.
Lui prende dalla tasca un involto e mi dice: «Ho una cosa per te». Nel panno di carta ci sono due rametti di corallo.
Rosso vivo, sulla pelle scura di Marco, sotto le luci fredde dell’aeroporto.
Aggiunge a bassa voce: «Portano fortuna».

Allora mi viene in mente un altro riferimento letterario. Marco non è solo Santiago, ma anche Bruno Schulz, che nella fantasia di Grossman invece di morire a Varsavia nel 1942 diventa un salmone e si unisce al branco.
Anche Marco, un giorno, diventerà un tonno e si unirà al branco. Scenderà in profondità e con un gesto secco del muso staccherà un rametto di corallo dallo scoglio. Un riflesso rosso che lentamente salirà verso la superficie.
Io lo prenderò e lo terrò sempre con me.

Bene, adesso è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Quando venite sul litorale di Capo Boeo, ricordatevi di guardare la linea dell’orizzonte e salutare il passaggio dei tonni. Sono loro i veri signori del Mediterraneo.
E come dice Davide: «Venite a Marsala, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti!»

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Da Marsala a Villalba

Fine settimana molto intenso in giro per la Sicilia, realizzando due nuove puntate di “Paesi, paesaggi”.
La prima dedicata alla pesca al tonno a Marsala, la seconda alla coltivazione del pomodoro pizzutello siccagno a Villalba.
Due nuove storie che mi hanno insegnato molto: ad esempio quanto possano essere ottusi e ostili i politici, oppure quanta modernità ci sia nel recupero intelligente delle cose del passato.
Abbiamo navigato di notte tra le Egadi e l’Africa, mentre di giorno siamo saliti sui monti del Bilìci.
Abbiamo conosciuto Marco e Francesco.
Marco è un pescatore che assomiglia al vecchio di Hemingway, Francesco è un contadino che sembra un ricercatore.
È stato facile conoscerli, sarà impossibile dimenticarli.

Pescherecci nel porto di Marsala

Marco e Davide in navigazione

Io e il palangaro

La valle del Bilìci

Ultimi pomodori pizzutelli siccagni

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Grappoli d’aceto

“Grappoli d’aceto” è il pezzo che ho scritto per mentelocale su Josko Sirk e il suo incredibile aceto d’uva.
Il paese è Cormons, in Friuli; il paesaggio quello del Collio.

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Le pietre dei druidi.

Oggi siamo in Lombardia; il paese è Gerola Alta, il paesaggio quello delle Orobie Valtellinesi.

Mosè alza la testa e guarda il cielo. Poi batte il piede sul terreno duro e compatto, infine si accarezza la barba. Dice: «Stasera piove». Lui è a 2000 metri, in alpeggio. Attorno ci sono le mucche, le capre, i figli. Gli animali si compattano sull’erba, gli esseri umani entrano nel calécc. Tutti aspettano, inquieti. Noi siamo giù a Morbegno. Guardiamo le stelle e diciamo: «Bella serata!». Poi andiamo a dormire. Siamo sereni.

Ci svegliamo poco prima di mezzanotte. All’inizio il rumore del vento, poi lo scroscio dell’acqua, infine la grandine, il battere ossessivo del ghiaccio sui vetri della stanza. In quota è tutto un muggire, belare, tacere. Non sono lamenti, ma suoni pazienti d’attesa. Smetterà.

L’indomani, alle otto in punto, siamo a Gerola Alta, davanti al centro di stagionatura del Bitto storico dove ci aspetta Paolo, il presidente del consorzio degli allevatori. Il cielo è limpido. La valle è ancora in ombra, ma si intuisce che sarà una giornata scintillante.

Due parole e poi su, verso l’alpeggio dove lavorano e vivono Mosè e altre tredici famiglie di casari. Fanno il Bitto storico, come i Celti duemila anni fa, immersi nella natura della loro terra. Già a dirla così, questa famiglia allargata di pastori sparsi per la montagna sembra la messa in scena di un presepe. Molti di loro hanno meno di trent’anni. Un dato insolito, che mette speranza.

La strada sterrata è sconnessa. Il fuoristrada sale lento ma inesorabile. È abituato a questi tracciati e ha i suoi ritmi. Io fremo. Appassionato di corsa in montagna vorrei scendere e salire con le mie gambe. Lo farò magari più tardi, al termine della giornata. Massimo invece soffre di vertigini e guarda verso monte. Io gli mostro continuamente la vallata mozzafiato e lui abbassa le palpebre. Mi sopporta.

Se c’è una parola capace di definire le montagne della Valtellina, questa è verticale. Attorno a noi pareti verticali di abeti che sembrano crescere uno sull’altro: le radici sulle punte. E in mezzo rocce e fenditure. In fondo, il fiume; ma non si vede, è troppo in basso. Si perde, come nel nero di un pozzo.

È uno spettacolo che mette un po’ di paura. Chissà com’era ieri notte sotto il diluvio…

Quando arriviamo in cima, Mosè ci aspetta con i suoi tre figli: due maschi e una femmina. È lei la mente del gruppo. Hanno già munto le vacche e adesso devono portare nel calécc un grande paiolo di rame dove faranno scaldare il latte. Uno dei figli di Mosè incastra due vecchi sci incrociati tra i manici del paiolo, lo solleva, lo rigira e se lo carica sulla testa, poggiando il collo sui legni.

Inizia a salire. Inesorabile come il fuoristrada di Paolo. Il paiolo pesa un centinaio di chili, il calécc dista un centinaio di metri. Intendiamoci, cento metri di dislivello.

Massimo sta filmando un pezzo di storia antica. Queste persone vivono e lavorano come i Celti che abitavano queste montagne mentre i Romani li ricacciavano verso nord. Lavorano il latte e fanno il formaggio nelle stesse pietre dei druidi: i calécc, appunto.

I calécc sono costruzioni in pietra a base rettangolare; sembrano le strutture di edifici crollati e la prima impressione è che siano dei ruderi. Invece sono le antiche casere di pascolo, progettate e costruite apposta per lavorare il latte appena munto. Il segreto del Bitto storico e della sua capacità di invecchiamento è proprio nella lavorazione a caldo. Ma non è solo questo. Non è mai una sola parola a fare poesia…

Davide posiziona la sedia all’interno del calécc e dice che «questa è la montagna perfetta, che appare oggi com’era 60 milioni di anni fa!».

In valle ci sono quattordici alpeggi che si susseguono regolari; ognuno è abitato da una famiglia di casari, dalle loro mucche e dalle loro capre. Conservano patrimoni antichi; ospitano piante, animali ed esseri umani che da sempre vivono in armonia con la natura. Poi Davide parla del Bitto storico e dice che è l’unico formaggio al mondo capace di invecchiare oltre dieci anni. Svela che il suo nome deriva dall’antico termine bitu, che significa perenne. Sbagliavo: una sola parola ed è già poesia.

Paolo ci guida alla scoperta del territorio e della sua immensa fragilità. Lo scenario è grandioso, ma debole. Basta poco per buttare giù le montagne. Lui non è uno dei quattordici casari, ma è la persona che li rappresenta tutti; come dice Davide in trasmissione «è l’uomo che prima di tutti e meglio di tutti ha capito l’importanza del Bitto storico e la necessità di continuare a produrlo partendo dal rispetto assoluto per la natura».

Le vacche mangiano solo erba di pascolo, sono munte direttamente in malga e il loro latte lavorato ancora caldo nel calécc, usando strumenti di legno. Quando l’erba è finita e il campo ben concimato dagli animali, la mandria sale e si sposta nel pascolo più in alto, in un altro calécc.

Si fa sempre così, da sempre.

Il Bitto storico è il formaggio dell’erba. Ogni valle ha i suoi prati e i palati fini li riconoscono tutti. Sfumature preziose. Paolo ha realizzato nel comune di Gerola Alta il centro di stagionatura del formaggio dove ci siamo visti questa mattina e dove Mosè e gli altri casari portano le forme che hanno prodotto in malga. Il pascolo dura tre mesi all’anno, il resto è neve e ghiaccio. Per gli allevatori, stalla e latteria. Il centro di stagionatura diventa così anche un luogo di conoscenza, oltre che di valorizzazione della produzione; uno spazio vivo dove l’emozione dell’alpeggio dura tutto l’anno. Mentre le forme maturano, la gente si ritrova, assaggia, acquista, discute, ascolta, impara.

La conoscenza è sempre alla base del rispetto ed è necessaria per difendere mondi grandi, ma fragili. A un certo punto del pomeriggio, le capre che si erano spinte in basso tornano in quota. Vedere a più di duemila metri un branco di capre orobiche che risale la montagna è uno spettacolo da non perdere. Massimo filma tutto mentre Davide si alza dalla sedia e si avvicina a Mosè. Il gregge adesso corre. Il pastore le chiama con piccoli versi pronunciati a labbra strette. Sono suoni indistinti. Se non fossi a pochi metri da lui non li sentirei.

Le capre sono inarrestabili; le corna lunghe, il mantello folto e scuro che svolazza lungo il pendio. Hanno seguito il sentiero alto. Sono salite sopra di noi e adesso scendono in picchiata. La parete è verticale, ma per loro è pianura. Mosè continua a chiamare. In un istante sono su di lui e il vecchio casaro viene risucchiato dal gregge. Lui è il capo, e poi ha le tasche piene di sale… Ne dà un po’ anche a Davide. La mandria, allora, s’interessa a lui.

È come essere allo zoo, solo che qui gli animali sono liberi; noi siamo liberi.

La serata è a tavola. C’è del pane, un po’ di affettato e tanto formaggio. Bitto storico di varie stagionature. Abbiamo tutti fame e mangiamo di gusto. Peccato. Non bisognerebbe mai avere fame per apprezzare i sapori. Si perdono i dettagli, sfumano le differenze.

Paolo suggerisce di masticare a lungo. Anche minuti. Così il palato diventa la cassa armonica di uno strumento musicale. I sapori come note. Ogni bocca una musica diversa. Ci regala una fetta di Bitto storico a testa.A casa lo mangerò così. Senza fame.

Bene, ora è tempo di andare.

Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi. Però, prima di chiudere la sedia e rimettersi in cammino, Davide guarda il pubblico nascosto dietro la telecamera di Massimo e dice: «Se venite in Val Gerola e vedete un calécc, fermatevi davanti alle sue pietre: sentite il profumo dell’erba e ascoltate la storia degli uomini e della natura di queste valli: è talmente antica da meritare un grande futuro. Perenne, come il Bitu…».

Venite in Val Gerola, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti. Perché questa è anche casa vostra.

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Grapppoli d’aceto.

Oggi siamo in Friuli Venezia Giulia; il paese è Cormons, il paesaggio quello del Collio.

Pensavamo di arrivare in fretta, perché eravamo già nel Carso. E invece siamo stati risucchiati dal raccordo tra Villesse e Gorizia, costretti a passare e ripassare sotto il grande arco che simboleggia la porta d’Italia. La strada è un lungo cantiere.

Pare infinito. Davide guida. Il satellitare impazzisce e noi con lui. Percorriamo una ventina di chilometri in un senso e non troviamo l’uscita per Cormons. Pensiamo di averla mancata, distratti dalle chiacchiere, così torniamo indietro. Niente. Sparita. Forse sollevata dalle gru che lavorano sospese lungo la strada rettilinea.

Usciamo e rientriamo. Poi usciamo ancora e rientriamo un’altra volta. Infine decidiamo di proseguire all’antica, senza strumenti e sulle strade di paese. Abbiamo perso molto tempo. Ma non importa. Arriveremo. Attraversando le vigne che costeggiano il confine di Stato, ci domandiamo che senso abbia allungare il tempo della vita per poi accanirsi ad accorciare i tempi di vita.

Josko ci aspetta senza fretta nel bosco della Subida; la testa in Italia, un piede in Slovenia.

Abita qui, in un angolo di paradiso, dove attorno alla sua acetaia ha realizzato un vero borgo recuperando antiche case contadine. Una specie di villaggio delle fate. Un luogo magico, da vivere soprattutto di notte, appena rischiarato dalla luce delle stelle e da un pizzico di luna. Una di quelle notti di mezza stagione, in bilico tra sudore e brivido, quando il piacere di stare fuori si confonde con l’invito a rientrare.

La sera siamo suoi ospiti. La tavola del ristorante è un dizionario di cultura del territorio. I piatti della tradizione sono interpretati con intelligenza e proposti con rispetto. Anche orgoglio. La polenta la prepara lui sotto i nostri occhi, mentre parliamo di tante cose, tutte insieme. Come una zuppa. Sul focolare ha realizzato una struttura in ferro per girare il paiolo di rame sul fuoco vivo. Già ammirare il gesto vale il viaggio.

Ma intanto Mitja, il figlio di Josko, ci racconta della pasta che sta servendo. Si chiama “buttata” ed è un piatto in apparenza semplice; un dono della tradizione fatto di farina e uova che viene preparato e – appunto – buttato all’istante, quando in casa non c’è niente di pronto. Josko la serve in una specie di grande bicchiere di vetro, condita con verdure di stagione del luogo. «Quello che c’è, quando c’è…» dice.

Penso a quanta perfezione ci sia nella semplicità delle cose “buttate lì”; cose di tutti i giorni, ma con la forza di resistere al tempo.

La passione per l’aceto, Josko l’ha maturata coltivando quella per il cibo. Lui è un ristoratore, addirittura stellato; l’aceto gli serve per i suoi piatti. Per condirli, naturalmente, ma soprattutto per cucinarli.

Josko parla lento, ragiona su ciò che dice e ascolta. Qualità rare. Mi piace osservare l’esattezza dei suoi gesti a tavola, quel delicato equilibrio di forza e leggerezza. Certe cose le impugna, altre le sfiora.

Ascoltare. Domandare… Josko ascolta Mitja che parla dei cibi in tavola. Ogni tanto domanda qualcosa. Quando il figlio risponde, il padre ascolta. Qualità rare.

Quello dell’aceto è un mondo misterioso, per certi versi nascosto e poco considerato.

«L’aceto sta al vino come l’asino al cavallo» dice Josko con un lampo brillante. Sono pochi gli acetai d’Italia, meno di dieci in tutto.

Del resto, anche chi scrive di vino non parla volentieri d’aceto.

Domani, durante le riprese, Davide poserà la sua sedia su un’altura del Collio, si metterà comodo e spiegherà che all’industria bastano due ore per trasformare il vino in aceto: centoventi minuti appena, mentre Josko ci mette tre anni! Però il suo aceto è unico, perché non nasce dal vino, ma direttamente dall’uva.

E’ fatto con la Ribolla gialla, uno dei migliori vitigni del Collio. Come dire: da una grande uva, un grande aceto.

Dopo la vendemmia, Josko mette gli acini di Ribolla nei tini di rovere della sua acetaia; quella in legno costruita nel bosco, vicino alle case delle fate. Ci lavora sodo per una decina di giorni mescolando e rimescolando l’uva. Un’operazione che si chiama folatura. Qui dicono che viene “bagnato il cappello”, cioè vengono spinte sul fondo del tino le vinacce che galleggiano per effetto della fermentazione. Si tiene appunto “bagnato il cappello”.

Poi gli zuccheri diventano alcol, il cappello cade e allora bastano due folature alla settimana, per un anno intero!

A questo punto – tecnicamente – l’aceto è pronto, ma per Josko è ancora troppo giovane. Deve invecchiare, come il vino, in barrique di rovere per altri due anni.

Josko porta alle labbra il suo aceto. Increspa le rughe; sta sorridendo. Mi ricorda che oggi il mercato penalizza le differenze: smussa gli angoli perché tutto sia simile e stia nel mezzo. «I grandi numeri si fanno nel mezzo» aggiunge. L’aceto di Josko non sta nel mezzo. È lontano dalla media e distante dai grandi numeri. Una figura capace di staccarsi dallo sfondo.

Al termine delle riprese, Davide si sistema sulla sedia. Giulio, il designer, l’ha progettata bene, ma alla fine della giornata risulta sempre un po’ stretta. Inforca gli occhiali e apre il taccuino. Poi prende la matita e comincia a scrivere. Infine alza la testa, fissa la sigaretta di Massimo accanto alla telecamera ed esclama: «Dunque, centoventi minuti dell’industria contro un-mi-lio-ne-cin-que-cen-to-set-tan-ta-sei-mi-la minuti di Josko! Ma il suo aceto d’uva è speciale: ha l’anima della Ribolla gialla, la testa e il cuore di chi l’ha fatto e allevato come un figlio!»

Poi Davide si domanda cosa aspettino i grandi chef a scoprire un prodotto come quello di Josko. A me viene in mente che anche l’aceto ha una madre, come gli esseri umani…

Allora, se venite nel Collio e accarezzate una botte di rovere, ricordatevi che potrebbe contenere aceto. Il migliore.

Non dimenticatevi di annusare i profumi dell’ospitalità e gustare i sapori delle culture, che qui si incontrano e passeggiano mano nella mano lungo la linea di confine.

Per noi è tempo di andare; ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.

Come dice Davide: «Venite nel Collio, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

Perché questa è anche casa vostra.»

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Il latte in via d’estinzione

Oggi è uscito il primo pezzo della nuova rubrica su mentelocale.it.
Appunti di viaggio in Val d’Aveto, lungo i sentieri della mucca Cabannina.
Una giornata ligure, alla ricerca di sapori unici nascosti sotto la rocca di Petramartina.

IL LATTE IN VIA D’ESTINZIONE (leggi l’articolo)

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la Tv da leggere.

“Paesi, paesaggi” viaggia anche in rete.
Su mentelocale.it l’anteprima della nuova rubrica dove raccontiamo cibo e territorio.
Una televisione da leggere…

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