Archive for luglio, 2012

La Siria che non c’è – 5 –

L’attacco dell’esercito siriano alla città di Aleppo si è puntualmente verificato, in tutta la violenza temuta. Due giorni di guerra, centinaia di morti, migliaia di civili in fuga. Quindici anni fa passeggiavo per le vie di quella città e annotavo le mie impressioni. L’ultima pagina del taccuino di viaggio del 1997 è dedicata ad Aleppo.

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Aleppo – mercoledì 15.07.1997

Oggi giornata di suk, di Cittadella, di cibo buono e di hammam.
Abbiamo trascorso una buona notte di riposo nel celebre Hotel Baron, monumentale e dimesso al tempo stesso. Uno di quei luoghi con l’aroma intenso della storia, delle cose che sopravvivono a se stesse e al loro passato. L’interno è prezioso, ma sconnesso. Dietro al banco sono appese le foto di Lawrence d’Arabia e Agatha Christie. Accanto a loro le immagini di tanti diplomatici e avventurieri che non conosciamo.

Al mattino, cambiamo del denaro e ci addentriamo nel suk di Aleppo, il grande mercato coperto che vive all’interno di un guscio fatto di pietre lavorate con rara maestria. E’ un’immensa tana, come un formicaio umano. I negozi hanno le volte in mattoni, le colonne d’ingresso decorate con bassorilievi di pregio. Se al suk di Damasco togli i clienti e le merci non rimane più niente; qui ad Aleppo, invece, restano i muri che contengono infinite storie.

Il mercato coperto è un ammasso di persone ma anche di animali, soprattutto asini. Nel suk di Aleppo gli asini possono trascorrere un’intera esistenza: nascere e morire in questo dedalo di vie, segnando il tempo della vita con il battere e il levare dei loro zoccoli.

asino nel suk di Aleppo

venditore nel suk di Aleppo (foto Giovanni di Camici)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Superiamo montagne di saponi di Aleppo ben disposti sulle bancarelle ed entriamo nel negozio di un venditore di tappeti. E’ un amico. Passiamo il tempo a bere del tè e giocare a backgammon; sembra che vendere tappeti sia la sua ultima preoccupazione. Poi passiamo dal profumiere. In realtà è un falsario, un artista degli odori. I sapori dei banchi di spezie si mischiano ai profumi di questi surrogati di Opium e Chanel n°5. Essenze comunque da Mille e una notte.

E dopo il mercato, l’hammam. Cioè: dopo la carne, lo spirito. Siamo sempre nel suk, perché l’hammam al-Nahasin è dentro il mercato. Un ingresso quasi nascosto, con una piccola insegna e una porta in legno. Chiniamo la testa, scendiamo i gradini e di colpo ci troviamo immersi in un silenzio fresco, irreale. Immagino Bjork, la sua voce, che canta lenta graffiando i vapori dell’acqua.

Hammam al-Nahasin (foto di Giovanni Camici)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’esperienza dell’hammam va bevuta a piccoli sorsi: alcuni sanno di paradiso, altri mettono inquietudine, come se rimuovessero fantasmi nascosti. Mi viene in mente “Creatura di sabbia”: la storia della ragazza obbligata a diventare maschio e a frequentare l’hammam. Un’adolescenza giocata sempre in trasferta, da soli e in campo nemico. Partite perse…

La Siria che non c’è – 4 –

Sempre ricordando la Siria che non c’è – il luogo dove ho ambientato il racconto “L’aroma delle note” – riapro il taccuino di viaggio del 1997 e leggo dell’autografo di Baggio nel deserto, rivedo le ruote di Hama con l’ombra degli Assad, infine il Krak des Chevaliers, con tanto vento intorno e colline sullo sfondo.

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Deserto, Hama e Krak des Chevaliers – martedì 14.07.1997

Ultimo respiro di deserto. Un gruppo di ragazzini (beduini, ma più civilizzati di quelli di ieri) hanno socializzato con noi e ci sfidano a pallone. Non è proprio come in “Mediterraneo”, ma quasi. Alla fine, siccome siamo italiani, saliamo in cattedra. Non perché siamo più bravi, ma perché parliamo la stessa lingua di Baggio. Lo conoscono tutti e ci chiedono il suo autografo. Io so scrivere Baggio, ma spiego che non è la stessa cosa. Uno di loro scrolla le spalle e torna a giocare palleggiando con disinvoltura. Dice qualcosa in arabo ai compagni. Io capisco solo “Zidane”.
Secondo me ha detto:
– Va be’ ragazzi, oggi faccio Zidane.

 

 

 

 

 

 

 

Perdiamo ai rigori e proseguiamo verso Hama dove ci fermiamo a dormire. Tra le immense norie, le ruote che sembrano sospese sull’acqua del fiume urbano, mi raccontano la storia del massacro di Assad dell’82. Anche qui, come a Damasco e Aleppo, vediamo dei dipinti murali con la triade degli Assad: il padre in alto, il figlio Basil alla sua destra e Bashar, il dottore, più sotto. Mi spiegano che accanto ad Assad c’è scritto “il mito”; accanto a Basil “il martire” e accanto a Bashar “la speranza”. Sembra un tipo così mite; ha studiato a Londra ed è cresciuto in Europa, forse alla morte del padre non sarà lui il nuovo dittatore. La speranza…

Le ruote di Hama (foto di Giovanni Camici)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Usciamo dalla città e procediamo verso le colline al confine con il Libano. La terra piatta e arsa del deserto si è mossa e tinta di verde. Chiudo gli occhi (non guido io) e quando li riapro mi sembra di essere in Toscana. I villaggi sono quasi tutti cristiani. Le donne non hanno più il velo. Fa meno caldo e c’è più umido; dev’essere l’aria del mare. Qualcuno indossa la jellabia, ma sono davvero pochi.

Krak des Chevaliers (foto di Giovanni Camici)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dalla cima di un rilievo, il Krak des Chevaliers domina il passo di Homs. Sembra un gigante addormentato con la pelle grigia e squamosa. Saliamo e siamo ospiti dei Templari. E’ un’altra Palmira, ma dei Crociati invece che dei Romani. Un altro luogo intatto, dove ti muovi come a casa tua. Nessuno ci chiede nulla, nessuno ci impone nulla. Il castello è aperto, non c’è una biglietteria, non c’è un a guida, non c’è un bookstore. Non c’è niente. Solo vento, e pietre. Segni di arretratezza? Tracce di un passato che resiste alla modernità del marketing culturale e della modernità occidentale o piuttosto i segni tenaci di una sapienza antica? Diceva sant’Agostino che la memoria non è il passato delle cose, ma il presente delle cose passate. Giusto.

La Siria che non c’è – 3 –

Oggi in Siria è stata una giornata più tranquilla delle precedenti (a parte che la Turchia ha schierato missili terra-aria lungo il confine). Mi sembra un buon momento per presentare la terza pagina del mio vecchio taccuino di viaggio del luglio 1997. Oggi prime sabbie del deserto…

Deserto – martedì 15.07.1997
Lasciata Palmira c’è solo deserto. Lungo la pista incontriamo solo due villaggi che sembrano sobborghi (bombardati) di Beirut. A guardare bene, nel deserto siriano si vedono spesso anche delle pecore. La guida ce le indica in lontananza; ci sono anche le tende dei beduini e dei cammelli.

 

 

 

 

 

 

 

Mio cognato, che vive a Damasco da alcuni anni, mi aveva raccontato una storiella interessante a proposito dei beduini e dei loro cammelli. Lui è svizzero e lavora per una ditta elvetica. Un giorno erano arrivati a Damasco dei manager tedeschi per trattare un affare con lui. Com’è noto, svizzeri e tedeschi non vanno molto d’accordo. A Zurigo girano gustose barzellette dove uno svizzero e un tedesco devono cavarsela in situazioni pericolose (tipo l’aereo che sta precipitando) e dei due uno fa la cosa giusta e il tedesco quella sbagliata.

Bene, durante le trattative, mio cognato svizzero e i manager tedeschi si prendono un giorno di ferie e vanno in gita nel deserto. Per strada incontrano dei beduini con i loro cammelli. Uno dei tedeschi dice:
– Ah, come vorrei mollare tutto e venire qui nel deserto, vivere come i beduini e non avere più preoccupazioni.
Mio cognato lo guarda e a denti stretti gli dice:
– Quando il cammello sta male, il beduino ha preoccupazioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sorrido. Mi immagino la battuta detta in tedesco con l’accento svizzero: una finezza. E intanto ragiono sul fatto che anche qui, nel posto più affascinante e inospitale della terra, l’uomo trova qualcosa da fare. Fosse solo sdraiarsi a terra accanto al proprio cammello quando sta male.

La Siria che non c’è – 2 –

Oggi sono morte più di 300 persone a Damasco durante gli scontri tra l’esercito di Bashar al Assad e gli oppositori del regime. Oltre trentamila civili sono rifugiati in Libano. Quindici anni fa, nella Siria che non c’è, passeggiavo per le vie di Damasco e cercavo una macchina per andare a Palmira. All’epoca Bashar era un medico di cultura occidentale, un uomo che sembrava mite e del tutto indifferente alla politica del padre e del fratello maggiore, che sarebbe morto dopo poco quasi obbligandolo a prendere il potere.
Ricordo quella Siria che non c’è pubblicando la seconda pagina del mio vecchio taccuino di viaggio. Oggi Palmira.

Palmira – lunedì 14.07.1997
Questo posto è magico, letteralmente. Intendiamoci, anche Paestum è un posto magico, ma qui la magia è self-service; non ci sono biglietti da pagare, recinti da valicare, flash da non far scattare. Qui non entri, arrivi. E vivi tra le rovine, passeggi, vai e vieni, fai quello che vuoi all’ora che vuoi. Le tre del pomeriggio non sono però l’orario migliore per fare qualcosa a Palmira. D’accordo che il clima è secco, ma il caldo è disumano. Mi rifugio sotto un fico e cerco il Paradiso in un sorso d’acqua. A proposito di Paradiso, mi viene in mente la Bibbia, il libro di Rut. In particolare un versetto in cui Booz, il padrone, discute sotto il suo fico. Mi ero sempre domandato perché venisse data tanta importanza a un fico; pensavo che si trattasse di un qualche richiamo divino al valore dell’umiltà. Adesso so che da queste parti possedere un fico è come avere uno yacht a Montecarlo. Una cosa da ricchi…

Palmira (foto di Giovanni Camici)

 

 

 

Palmira, tempio di Bel (foto di Giovanni Camici)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Torno allo scoperto in serata. Giriamo per la città romana e piano piano prendiamo confidenza con il luogo. Il clima cambia molto a seconda della posizione del sole e della direzione del vento. Puoi fare quello che vuoi e nessuno ti dice niente. Cioè, gli antichi sono ancora qui che svolazzano. Invisibili. Ti guardano, li senti, ma ti lasciano fare. Basta che ti muova con rispetto e discrezione. Non è difficile: il luogo incute rispetto e ispira discrezione. Decido infine di fare due passi nell’agorà. Poi me ne vado al tempio di Bel e prima di cena faccio un po’ di vasche lungo il viale colonnato.

Qasr-al-Hayr (foto da Wikipedia)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Domani si va in gita nel deserto, al Qasr-al-Hayr. Per lavoro devo fare una ricerca di nomi. Così prendo il taccuino e me ne torno nell’agorà. Mi sdraio su una pietra tiepida e penso. Non mi viene in mente niente, ma sono felice lo stesso. Più felice.

La Siria che non c’è: postcards from the edge.

Anche oggi in Siria si spara. Il paese è in guerra, con se stesso innanzitutto. Una guerra civile – forse di liberazione – scatenata dalla violenza del regime e da quarant’anni di dittatura.

Quindici anni fa, nel mese di luglio del 1997, ero in Siria. Non era un paese libero, ma potevo visitarlo e cercare di capirlo. L’anno scorso ho scritto un racconto sul caffè intitolato “L’aroma delle note” e l’ho ambientato nella città di Aleppo che ricordavo. Il racconto è stato pubblicato ed è diventato anche un concerto e uno spettacolo teatrale. Ha portato in scena una Siria che non c’è.

Di quel viaggio ho ritrovato alcune immagini (diapositive, perché le macchine digitali non c’erano) e alcuni fogli di appunti. Li ho riletti e mi sono sembrati come cartoline da un mondo lontano: postcards from the edge.

Voglio pubblicarle così com’erano, senza cambiare niente, per ricordare la Siria che non c’è.

Le immagini invece sono di Giovanni Camici che ringrazio per l’aiuto e la disponibilità. Le mie diapositive – difficili da scannerizzare – restano nei loro raccoglitori. Le guardo in controluce, puntandole verso il cielo.
Altre cartoline da un tempo lontano.

città di Damasco (foto di Giovanni Camici)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Damasco – sabato 12.07.1997

Oggi ho visto molte cose, alcune interessanti, altre utili. Tra le cose utili metto senz’altro il fatto di aver imparato i numeri indiani che usano gli arabi; sì, perché quelli arabi li usiamo già noi. Non sono diventato Fibonacci, ma almeno quando voglio comprare qualcosa nel suk so quanto devo spendere e non mi fregano più.

evoluzione dei numeri.

 

 

 

 

 

 

 

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Tra le cose interessanti segnalo invece la grande moschea degli Omayyadi. Non starò a dire quanto sia bella e ricca e affascinante; dirò piuttosto della gente e dell’aria di festa che si respirava all’interno durante la funzione. Un’orda di bambini scorrazzava in mezzo ai corpi raggomitolati dei fedeli. Li guardavo sgusciare tra gli adulti e talvolta incespicare nei piedi o nelle mani di qualcuno, oppure nelle pieghe dei tappeti stesi a terra. Qualcuno di loro, tanto per prendere fiato e fare qualcosa di diverso, smetteva di correre e s’inginocchiava a terra, ribaltandosi a testa in giù nel tentativo di imitare i genitori. Solo che davano tutti la schiena al profeta, e quando abbassavano la testa gli alzano il sedere in faccia.

moschea del Omayyadi (foto di Giovanni Camici)

interno della moschea (foto di Giovanni Camici)

 

 

 

 

 

 

 

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Dirò anche del suk, e di come tutti, ma proprio tutti qui a Damasco, abbiano sempre qualcosa da fare. In Siria la metà della popolazione è disoccupata, però non si vede perché nei mille (e uno) negozi del bazar sono tutti indaffarati a muovere qualcosa. Magari solo aria.

suk di Damasco (foto di Giovanni Camici)

 

 

 

 

 

 

 

 

Picasso in copertina.

La copertina di un libro è uno degli elementi fondamentali del suo successo. Dopo aver trascorso oltre vent’anni a lavorare in pubblicità, dovrei saperlo bene. Eppure, negli ultimi tempi, tendevo a non occuparmi delle copertine dei miei libri, lasciando l’editore libero di agire per il meglio. Come se, in qualche misura, volessi dimenticare le mie origini di art director e rifugiarmi nei successivi panni di copywriter e scrittore. Niente di più sbagliato. L’autore deve, a mio avviso, interessarsi anche alla grafica del suo libro, perché l’immagine di copertina, l’impaginazione del testo e la scelta delle fotografie sono elementi visivi che incidono in maniera spesso determinante sulla fruizione del testo.

Ogni libro è un viaggio, per chi lo scrive e per chi lo legge. E l’immagine di copertina fa parte di quel viaggio, come l’incipit e la fine. Oggi ho una consapevolezza diversa del mio ruolo di scrittore e partecipo volentieri a tutto ciò che accompagna la scrittura. E allora, quale copertina scegliere per “Il sarto di Picasso”, in uscita in Italia e in Francia il prossimo autunno?

Non abbiamo ancora deciso, però c’è un’immagine che amo molto e che sintetizza l’amicizia tra Pablo Picasso e il suo sarto Michele Sapone. In un precedente post avevo pubblicato la fotografia di David Duncan (scattata il primo aprile 1957, alla Californie di Cannes), dove si vedeva l’artista realizzare una caricatura del sarto.

In pochi tratti di pastello a cera, Picasso aveva saputo racchiudere tutta la personalità del “bandito Sapone”, tutta la sua spumeggiante vitalità. Vengono alla mente le parole di Alberto Giacometti, quando nel 1959, dipingendo il ritratto di Aika (la figlia di Sapone) si lamentava di non riuscire “a cogliere la somiglianza” e diceva alla ragazza, immobile di fronte a lui:
– Picasso sì che avrebbe fatto un bel ritratto!

1 aprile 1957, La Californie – Cannes. “Ritratto del bandito Sapone”, Picasso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Mi piace” il sarto di Picasso.

“Il sarto di Picasso” sta per essere tradotto in francese, ma nel frattempo la prima stesura del libro è stata letta da alcuni “autorevoli” amici. Persone che mi sono vicine nella vita e nel lavoro, alle quali chiedo sempre un’opinione personale sulle cose che scrivo prima che vengano pubblicate. Tra tutti i commenti ne segnalo tre, particolarmente positivi.

Il primo è di Guido Leotta, scrittore, editore e musicista. Mi ha mandato una mail che era già una recensione.
Di seguito le sue parole:
Che la realtà superasse di gran lunga la fantasia è una faccenda banale già nota a tutti. Ma “questa” realtà che Luca Masia ci racconta, con stile, ha un ritmo così incalzante fin dalle prime pagine che potrebbe costituire la sceneggiatura per un film d’azione… Col pregio che la (documentatissima) azione, in queste pagine, si muove con eleganza e tatto, con alcune pennellate d’ironia (che non guasta). E con tanta partecipazione emotiva, che si comunica immediatamente al lettore, trascinandolo nel mondo dell’arte più sublime e in un’epoca magica, così ricca di creatività da lasciare senza fiato. Come in un film in 3D noi ce ne stiamo lì, comodamente seduti nella bottega di Sapone, nel salotto di Picasso (& Co.), a godere di ogni sfumatura di colore e – persino – del profumo della pastasciutta che sigilla i momenti più gioiosi o toccanti.

Il secondo commento è di Davide Rampello, regista e direttore artistico, presidente del Padiglione Zero di Expo 2015:
Complimenti Luca, hai fatto di un memoir un vero romanzo; un racconto avvincente dove con grande sensibilità hai saputo fondere la ricerca documentaria con la capacità di immedesimarti nei personaggi (e che personaggi, da Picasso a Giacometti, da Hartung a Severini…) e nell’epoca storica (e che epoca: la volontà della ricostruzione, i sogni degli anni cinquanta, il boom dei sessanta…).Hai saputo ascoltare e metterti sulla lunghezza d’onda della memoria, permettendo al lettore di “entrare” nella vicenda e dialogare con i suoi protagonisti. Leggendo (d’un fiato) il tuo libro, sembra di ascoltarne le voci, coglierne i pensieri, anche quelli più nascosti! Un risultato eccellente, davvero.

Il terzo è invece di un mio caro amico, compagno di tante corse su e giù per i bricchi di Genova. Si chiama Mauro Semonella e non è né un direttore artistico né un editore, ma un intelligente imprenditore (la sua ditta si chiama Tigullio Design) oltre che un appassionato podista. Mi ha detto una cosa molto bella, e me l’ha detta mentre correvamo nei boschi del Peralto:
– Luca, ho iniziato il tuo libro al mattino e prima di pranzo ero già a pagina 120. Ho dovuto interrompere, ma non vedevo l’ora di tornare a leggere. L’ho finito la notte, e l’indomani sono andato alla Feltrinelli a sfogliare dei volumi d’arte di Picasso e Giacometti. Il tuo libro mi aveva fatto nascere un interesse che non sapevo di avere.

Grazie a tutti e tre. E grazie soprattutto a chi tra i primi lettori ha invece espresso dei giudizi negativi. Nel lavoro di editing ho tenuto conto soprattutto del loro parere.

Foto David Duncan – La Californie, Cannes 1957: Picasso mentre disegna una caricatura di Michele Sapone

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La bellezza dell’editing.

In un precedente post avevo annunciato di aver terminato la prima stesura del mio ultimo libro intitolato “Il sarto di Picasso”. Da un paio di giorni ho iniziato la fase di editing, che durerà circa un paio di settimane. In questo periodo leggerò “il sarto” almeno tre, forse quattro volte. E’ un lavoro che mi piace molto, perché mi obbliga a concentrarmi sulla forma definitiva da dare al testo. I contenuti sono ormai a posto; ciò che conta adesso è solo la forma, capace di esaltare o deprimere il racconto. Dopo tanti colpi di accetta è il momento di lavorare di lima, affinché le frasi scorrano lievi e si leghino le une alle altre dando vita a una narrazione fluida e omogenea.

Come dicevo, dedico sempre molta attenzione al lavoro di editing, scrivendo e riscrivendo interi periodi. Quante volte? Dipende. A un certo punto mi fermo, quando mi tornano in mente le parole di Raymond Carver che diceva che un testo è veramente a posto solo quando ti accorgi di mettere ciò che hai appena tolto e togliere ciò che hai appena messo.

La raffinata bellezza del lavoro di editing è che ti permette di abbracciare il tuo testo e dargli finalmente le giuste misure. Un po’ come faceva Michele Sapone (il sarto di…) con Picasso in questa bella foto di André Villers (La Californie, Cannes, 1956).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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